Basta con la guerra perpetua
C’è quel preavviso israeliano all’Iran. Ha lasciato una sensazione forte, a tratti è un vento forte, che poi si attenua, poi è silente. Un’altra guerra si è messa in coda alle guerre della Storia. Il Mediterraneo che si infiamma, altro che Atlantide. Che avvenga-non avvenga l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, due popoli attendono, dimenticano, di nuovo attendono. Nelle case di Teheran e Tel Aviv chiamano al telefono i parenti nel mondo, parlano di quello che potrebbe succedere.
C’è quel preavviso israeliano all’Iran. Ha lasciato una sensazione forte, a tratti è un vento forte, che poi si attenua, poi è silente. Un’altra guerra si è messa in coda alle guerre della Storia. Il Mediterraneo che si infiamma, altro che Atlantide. Che avvenga-non avvenga l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, due popoli attendono, dimenticano, di nuovo attendono. Nelle case di Teheran e Tel Aviv chiamano al telefono i parenti nel mondo, parlano di quello che potrebbe succedere. O non parlano con nessuno e la notte sognano la guerra: da qualche parte la paura deve finire. Un’immane pazzia. Il conflitto tra Israele e il mondo arabo, di cui l’Iran non è parte etnica ma religiosa, è così permanente da essere eterno nell’agenda politica mondiale.
Una guerra di guerre, lunga sessantaquattro anni, il cui inizio nel ’900 è visibile in filmati in bianco e nero. Il fatto era, ed è rimasto, che l’esistenza di Israele era un’offesa, Israele non doveva esistere. Poi Israele ha continuato a esistere, ha capitalizzato le guerre vinte prima contrattando la restituzione dei Territori senza riuscirci, e da vari anni, con questa destra in carica, assorbendo in modo implicito, poi sempre più esplicito, i Territori. Netanyahu pare ingoiarli, evitando di contrattare la restituzione, come se fosse un non udente di un governo di non udenti. I Territori contengono la massa crescente dei coloni, un sempre più consistente serbatoio elettorale con cui fare i conti del consenso e degli affari edilizi, della costruzione delle infrastrutture. C’è la onnipresente pervasività fisica, economica, mediatica degli insediamenti israeliani, basta guardare la carta geografica; c’è il macigno della non restituzione dei Territori; la scomparsa dei tavoli della pace; il fine evidente di far prevalere lo status quo; il prender piede, con le ultime ondate dell’Alyà, di nuove stratificazioni etniche e sociali, la degenerazione dell’idea sionista in una cultura pionieristica che ricorda sempre di più la storia del Far West o, peggio, il cinema Hollywoodiano sul Far West e la dissoluzione delle terre indiane.
Una semiguerra all’Iran, ma anche un’azione militare ostile nel suo territorio, sarebbe la pietra tombale su qualsiasi accordo futuro per i Territori. Un tale accordo non interessa questo governo di Israele che detiene nei Territori una parte importante del proprio serbatoio elettorale, e che in nome dei propri interessi politici e finanziari, non solo non è interessato alla pace, ma forse le è contrario. Dato che le ragioni di questa ostilità (una terra da restituire, l’aspirazione a uno stato palestinese) sono proprio le ragioni che se rimosse con i sacrifici dolorosi propri di una pace, danneggerebbero irreparabilmente gli interessi politici e finanziari del governo e del suo elettorato. Perché così si fa la pace con un nemico: rintracciando le vere ragioni dell’ostilità, contrattandole con l’offerta di terra e compensazioni che facciano arretrare quell’ostilità, in cambio dell’accettazione di alcuni punti, per esempio il riconoscimento dello stato d’Israele; mentre con minacce e azioni apertamente ostili come un blitz nei siti nucleari iraniani si ottengono subito il logoramento e la rottura di un qualsiasi tenue filo di dialogo. A fronte della mancata volontà israeliana di pace ricercata a ogni costo (magari con sacrifici dolorosi come la restituzione di Gerusalemme est e di Hebron), e anzi si preferisce minacciare l’Iran, si rispecchia in modo uguale e contrario la politica estera, o imperiale dell’Iran. La quale si offre come una ripetizione di quello che faceva la vecchia Urss nella regione, posto che il vero interesse del Cremlino nell’area era di mantenere l’instabilità. Era il tempo in cui, in modo sottile, non veniva realmente sostenuta la causa palestinese, la nascita di uno stato, ma come accade oggi con l’Iran si armeggiava ad apprestare turbolenze, a fare delle aspirazioni palestinesi un’arma di pressione nell’area più delicata del mondo. Dunque, la questione palestinese usata come rubinetto da aprire e chiudere: un’arma contrattuale. La chiave per altre mire e altre trattative.
Ora che la politica estera è stata sostituita dalle intraprese militari portate in giro per il mondo dalle coalizioni occidentali, e la pace-guerra è familiare agli occhi della nostra opinione pubblica, il conflitto israelo-palestinese è paradigmatico quanto al significato universale della parola “guerra”. La lunghissima guerra tra Israele e Palestina illustra come un conflitto possa avere utilità istantanea e alla lunga l’inutilità della peggior beffa. Con la sua guerra di guerre vinte, Israele è riuscito a resistere, mai ad avere vita normale; dall’altro lato, attraversando come impunemente le sconfitte, i palestinesi hanno alimentato il sogno di una Palestina che sorge addirittura al posto di Israele, ma non hanno posto una sola pietra per la nascita dello stato palestinese. E così, se consideriamo la guerra tra Palestina e Israele dal 1948, la vita dei due popoli è paragonabile a quella di una persona di 64 anni che ha vissuto l’intera vita chiusa in casa, al buio, senza avere mai visto il sole. E a me pare che oggi, profondamente, la vita quotidiana di Israele e Palestina ponga la questione filosofica del senso della guerra, la sua incompatibilità col sentire del nostro tempo. Né vinta veramente né persa per davvero, può una guerra continuata al posto della vita essere una forma ufficiosa di società, con la gente che va al lavoro, alla partita, a ballare, e a un tratto parte per Gaza o il Libano? O vive confezionando ordigni, scavando tunnel, sempre un passamontagna sul volto? A Gaza, i ragazzi giocano con la PlayStation, fanno la mitologica parte di Messi, ma fra poco potrebbe partire una fatwa anche sui Blaugrana che hanno ospitato Shalit a una partita col Real Madrid, e così morirà anche questo innocente sogno infantile.
Può una guerra eterna seminare il futuro? E può il sistema delle guerre portate dalle coalizioni come esportazione della pace, divenire un baluardo di civiltà e democrazia? Le vite di Israele e della Palestina dicono di no, che servirebbe l’ordine della pace. Mentre gli esiti della pace armata sono i quaranta morti al giorno in Iraq, l’irriducibilità talebana (con cui già i sovietici fecero i conti), gli attuali oltre duemila morti della coalizione occidentale, il permanere di al Qaida la cui effettiva esistenza appare insondabile, e raggela. La dottrina dell’esportazione della democrazia con la guerra ha fallito e le strade di Baghdad snocciolano morti, del resto come può una pioggia di missili sulle vie della tua città averti educato alla democrazia? Noi che abbiamo visto in tv l’attuarsi dell’ordine attraverso la miniserie dei bombardamenti in diretta, in Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libia, abbiamo constatato de visu che la guerra “intelligente” fa crollare le mura dei bunker ma rende monchi e orbi come la guerra antica. La guerra rimane sempre la stessa: un cannibale.
Israele potrebbe scegliere, malauguratamente, di agire se nell’imminenza delle presidenziali Obama mostrasse incertezze, a seconda dell’andamento della campagna elettorale; oppure se i repubblicani a un tratto fossero così forti da dettare un ritorno alla dottrina Bush. Certo, non si può attaccare l’Iran per un dibattito televisivo andato male a Obama. Per ora la realtà è che la Casa Bianca dice di avere una visione del nucleare iraniano affine a Israele, ma una diversa valutazione sulla tempistica di Teheran. Seconda cosa, il mondo è attraversato da una crisi economica come metafisica, la sua lunghezza non si piega e non si spiega: una crisi che è come una guerra mondiale invisibile, e sia l’America che il mondo non possono permettersi due contemporanee, fatali guerre mondiali. A fronte del flemmatico palleggio della Casa Bianca che smorza il preavviso israeliano di guerra, il ballon d’essai di Netanyahu torna nel campo di Israele, prigioniero storico della filosofia della guerra preventiva, e trova lo stato ebraico saldato alla propria immobilità, fatta di un sostanziale disinteresse a una pace che non sia la dissoluzione geografico-politica di una possibile patria di Quelli.
Solo i popoli di Israele e Palestina sanno quanto sia insensato il sistema della guerra. Per Israele la guerra è la struttura emotiva dei giorni: gli ebrei israeliani sono usciti dalla Seconda guerra mondiale e dalla Shoah, e sono stati fluidamente ingoiati da una guerra fatta di guerre successive: come se la vita possa costituirsi solamente di guerra, e nella migliore delle ipotesi bisogna essere pronti al suo scatenarsi. In Israele è un dato naturale che ci sia la guerra, o che sia dietro l’angolo, e anzi è pericolosamente sospetto il contrario: una pace lunga significa che Quelli si stanno organizzando. Solo chi vive così da generazioni, sa, consciamente o meno, che a una guerra lunga generazioni corrisponde la depressione, la vita sui nervi e altri passi sul viale dell’angoscia.
Con la guerra, nelle famiglie israeliane, hanno fatto i conti uno o molti; e nel vicinato, sul pianerottolo, c’è sempre un vicino, un conoscente che è diventato pazzo per aver perso la famiglia nella Shoah e un figlio in guerra. E così, l’Israele moderno è paradigmatico di come la guerra abbia un’utilità istantanea e un’inutilità assoluta. Il susseguirsi delle guerre vinte, nel peggiore dei casi almeno non perse, ha sviluppato l’odio crescente dei vinti e la stanchezza di quei disgraziati dei vincitori. Questo governo Netanyahu dei preavvisi di guerra esercita un’assenza di ricerca della pace, un’estraneità totale all’azione di ascoltare il prossimo, che è condizione esistenziale di non vita. Non è un caso che l’ultimo eroe di Israele non sia Rabin, che aveva stretto la mano ad Arafat ed è stato assassinato, ma il corpo dimenticato di Sharon: un né vivo né morto che certo non torna a vivere e che misteriosamente non riesce a riposare in pace – metafora inquieta della vita impossibile israeliana. Israele amplia gli insediamenti, costruisce case e infrastrutture: è come se cullasse la tensione. Sta smarrendo la normalità. E’ una vita in stato ebraico di assedio. E in modo paradossale, questo rassegnarsi alla vita come guerra, assomiglia alla sopravvivenza quotidiana del tempo mentale e fisico della Shoah.
Quanto vale per la guerra eterna tra Israele e il mondo arabo, Israele e l’Iran, vale per le reiterate guerre occidentali nel Golfo, nel Kosovo, in Afghanistan, Libia. Per quanto tale modo di operare venga chiamato peace keeping, contingenti di pace, guerra umanitaria, quando volano gli aerei e cadono le bombe, i contingenti non sono di pace. Guerre con “costi umani”, si dice, per non dire morirete a chi sta per morire; guerre con obiettivi limitati, si dice, che colpiranno “solo” le infrastrutture, come se strade, ponti, fabbriche, stazioni ferroviarie siano parentesi della vita. Guerre in tv, come se quell’essere di Baghdad nelle tv di tutto il mondo, la città di Aladino che si immergeva in una fantasmagorica luce verde, rendesse plausibile la pioggia dei missili da crociera Tomahawk sparati dal Golfo, come se la crociera dei tubetti di ferro fosse una capatina in città. “Sono stati sparati 130 missili da crociera” avverte quieto dal teleschermo lo speaker, opzione sorridente della guerra nella vita di famiglia. Uno torna a casa: cara, che è successo oggi? Niente, centotrenta missili da crociera, centrati otto target, e fuoco amico a Kabul – ma nulla, non erano italiani.
All’inizio, le guerre in Kosovo-Afghanistan-Iraq volano alte tra le nubi dello spettacolo televisivo, poi piombano in basso e colpiscono davvero. La guerra corre, ci sono le dichiarazioni dei rappresentanti dei governi. Si presentano ai microfoni in eleganti abiti civili, come se non fossero loro a mandare gli aerei dato che hanno la cravatta. Ci sono quelle dichiarazioni: nessuno ce l’ha coi popoli colpiti, la guerra è contro il regime e i suoi capi. Va da sé che non sono perforati solo i bunker del regime e le ville al mare dei capi: saltano in aria le normali piazze con le normali panchine, le case con i letti e i comodini e se va bene le scuole bruciano con dentro solo i meravigliosi disegni dei figli. Ma le belle strade che legano i quartieri si riempiono dei crepacci delle bombe, diventano strade inutili, e anche se le trasmissioni televisive funzionano ancora e la sera danno un film, la normalità ormai è scappata dalla finestra e nessuno sa dove sia andata. La pietà, quella subentra quando finalmente le macerie sono inquadrate dal basso assieme ai corpi immobili; e risulta veramente strano che oltre alla guerra preventiva non possa esserci la pietà preventiva, ma solo la sterile pietà successiva. Un permanente Vietnam. Un set cine-bombardante che elimina dittatori e rende profughi i popoli. Le case dissolte, le auto carcasse, le popolazioni fuggite, le vie deserte, le tendopoli piene, l’acqua finita, i padri scomparsi – la guerra è stata vinta. Da chi?
Guerra per una pozza d’acqua, come nell’inizio mitopoietico di “2001, Odissea nello spazio” di Kubrick. Lì, poniamo quattrocentomila anni fa, viene ucciso il membro di un gruppo di ominidi ancora privi di parola. Ringhiano, sbuffano, sono dotati di un’andatura incerta. Quando giungono alla pozza, litigano con altri ominidi per il suo possesso: il fatto è che lì si beve. Converrebbe avere la pozza e bere al posto degli altri. Tra gli ominidi c’è una discussione stilisticamente brutale. Le urla sono sempre più forti e ha luogo la prima uccisione della storia. Non originata da una lite individuale, ma come sottende il racconto biblico di Caino e Abele un omicidio-guerra per una contesa tra due gruppi identici ma socialmente diversi. Uno è stanziale e vive presso la pozza, l’altro è un gruppo che arriva da chissà dove per andare chissà dove e adesso ha sete. Per invidia, balordaggine, la prevalenza di un istinto insopprimibile, scoppia la prima guerra umana. Alla pozza di Kubrik, la scoperta di come risolvere il contenzioso e bere solo gli uni e assolutamente nessuno degli altri, avviene per caso: un ominide tira su da terra l’osso di un animale spolpato, reso bianco dal sole, e lo brandisce. Per un’intuizione fatale, colpisce la testa a un contendente, che piomba a terra senza vita. Urlava, ora però è in silenzio, misteriosamente inerte. Tra gli ominidi si diffonde la vertigine: è stata tolta la vita. I compagni del morto fuggono, gli altri giubilano: la morte può essere data, c’è questo potere! In segno di trionfo, lo strumento che ha ucciso un uomo per la prima volta della Storia, l’osso di una preda uccisa e mangiata, viene tirato in cielo.
L’osso volteggia in alto, più in alto ancora, cinematograficamente diviene una stazione spaziale orbitante – il tempo è passato in un soffio: l’ominide è un uomo. Fa l’astronauta, comunica a distanze immense. Si nutre in modo funzionale alla vita spaziale, strizza dei tubetti e ingoia sintesi cremose di uova, verdure, carni. Galleggia in assenza di gravità, cammina saltellando su pianeti dove non c’è ossigeno. Ora che non è più il 2001 del film, ma il nostro 2012, sappiamo che dopo avere orbitato nelle stazioni spaziali, l’uomo ha ucciso e uccide come alla pozza dell’acqua. Fa ancora la schifosa guerra. La storia umana passa da un omicidio: tutte le scoperte e le acquisizioni della volontà ne sono intossicate. E in modo appena visibile, un filo sottile che attraversa la lunga stanza della Storia, tutto inizia da un colpo in testa, inferto mediante l’osso di un animale ucciso per nutrirsi – versare sangue, uccidere apparenta con la violenza, la rende una delle cose ordinarie di oggi e di domani. Genesi è l’allegoria di un trauma: rompere l’armonia tra le creature, fu altamente tossico: dalla morte è venuta la morte. Perché la questione della guerra è la questione del Male: è metafisica, muove lo spirito. Ora però, la moderna questione della guerra è che la guerra in tv non seduce più. Non possiamo fantasticare più sulla guerra romantica, i commilitoni, l’avventura. In tv, la guerra fa schifo. Mica è un film, non c’è ritmo. C’è gente in fila per l’acqua, i bambini stano zitti, a un angolo c’è un cadavere.
La guerra non è in sintonia con la nostra sensibilità, con gli occhi dei figli a tavola – non è ricevibile. La guerra della giustizia strappa i corpi, lascia odio, è comunque guerra. Certo, talora la guerra è stata utile: se a liberare l’Europa non ci fossero stati gli americani e l’Armata rossa, chissà cosa sarebbe oggi il mondo. Ma siamo nella post Storia, c’è l’attesa di vita, le palestre, il culto del corpo, i viaggi, gli amici dei social network da Milano a Giava: la guerra non è comprensibile, razionalizzabile, assimilabile. Perché ritenere che la guerra risolva, se non è affatto così? Che il dolore fisico non ci sia, quando si vede bene che c’è? Possiamo pensare che se quattrocentomila anni fa non ci fosse stata la lesione dell’armonia universale, versare sangue di altre creature per riempire se stessi di cibo e di possesso; se non avesse prevalso l’impulso di versare sangue come una cosa naturale per nutrirci, una cosa sopportabile, come infatti sopportiamo la convivenza degli occhi miti del bue con la fetta di carne sul nostro piatto. Se tutto questo non fosse mai successo, se non avesse prevalso mors tua vita mea, la Storia sarebbe stata un’altra. Allora non ci sarebbero stati Auschwitz né Hiroshima. Invece, c’è più di una guerra a generazione.
Alla fine abbiamo visto due Gheddafi, quello assalito e sparato, e quello ricomposto in un interno. Di quello assalito si dice che siano stati i francesi ad assalirlo, ma ad assalire è stata la solita guerra. Il secondo Gheddafi è quello di qualche giorno dopo, ricomposto forse in una capanna. Era come se stesse dormendo. Estraneo alla guerra che aveva appena finito di rimbombare, appariva parte intrinseca di una pace sconosciuta sia al lui di prima che a noi di ora. Affacciato al confine di quel mondo col nostro, il suo corpo pacato domandava: “C’era bisogno di tutto questo?”.
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