Demo-cattolici vs Renzi

C'è una guerra di religione nel Pd

Claudio Cerasa

Tra i numerosi conflitti che caratterizzano l’appassionante sfida tra il Pd di Matteo Renzi e quello di Pier Luigi Bersani ce n’è uno che forse più degli altri in questa fase vive sottotraccia nella dialettica tra il sindaco di Firenze e l’apparato del Partito democratico. Questa volta non si tratta soltanto della semplice declinazione della parola “rottamazione” ma si tratta invece di una questione più significativa legata a un conflitto a bassa intensità tra due modi diversi e contrapposti di intendere la presenza dell’universo cattolico all’interno del centrosinistra.

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    Tra i numerosi conflitti che caratterizzano l’appassionante sfida tra il Pd di Matteo Renzi e quello di Pier Luigi Bersani ce n’è uno che forse più degli altri in questa fase vive sottotraccia nella dialettica tra il sindaco di Firenze e l’apparato del Partito democratico. Questa volta non si tratta soltanto della semplice declinazione della parola “rottamazione” ma si tratta invece di una questione più significativa legata a un conflitto a bassa intensità tra due modi diversi e contrapposti di intendere la presenza dell’universo cattolico all’interno del centrosinistra. Un conflitto che, se vogliamo, ci dice anche qualcosa di più sulla ragione per cui nelle ultime settimane i più implacabili e spietati critici del sindaco di Firenze non sono stati i soliti vecchi comunisti divoratori di bambini alla Massimo D’Alema ma sono stati invece alcuni politici come Franco Marini, come Giuseppe Fioroni, come Rosy Bindi, come Dario Franceschini e come Enrico Letta che provengono da un percorso politico non distante rispetto a quello da cui arriva il Gian Burrasca toscano, e che per questo, in teoria, dovrebbero avere quantomeno una certa affinità con il sindaco fiorentino. Eppure, negli ultimi tempi, le maggiori sportellate ricevute da Renzi sono arrivate proprio da qui, da quella che dovrebbe essere la sua vecchia famiglia politica: quella dei cattolici democratici. Perché?

    In prima battuta, la risposta più pigra è che i vari cattolici alla Bindi, alla Fioroni, alla Letta, alla Marini e alla Franceschini temono che un’affermazione importante di un cattolico come il sindaco di Firenze possa corrispondere a un ridimensionamento del proprio ruolo all’interno del Partito democratico. Sintesi del ragionamento: se Renzi va bene, e non prende schiaffi alle primarie, non solo ci rottama tutti quanti (aiuto!) ma diventa il nuovo punto di riferimento di chi non è comunista dentro il Pd, e noi quindi rimaniamo per strada. La questione esiste ed è umano che una parte dell’apparato cattolico del partito possa temere di perdere le proprie sudate rendite di posizione guadagnate in questi anni all’interno del Pd. Ma non c’è soltanto questo, evidentemente, c’è qualcosa di più: qualcosa che riguarda da un lato una storica battaglia combattuta tra le due grandi anime cattoliche della sinistra (quella dei dossettiani e quella dei popolari) e dall’altro lato una battaglia più recente combattuta tra le due grandi anime della sinistra europea (quella, per capirci, a vocazione maggioritaria e quella a vocazione neo-socialdemocratica).

    Il primo punto riguarda principalmente il rapporto di Renzi con il mondo dei dossettiani alla Rosy Bindi, alla Dario Franceschini e in parte alla Romano Prodi. Renzi – pur essendo cresciuto in una fauna politica impregnata di dossettismo (il suo maestro è il santo sindaco di Firenze Giorgio La Pira, dossettiano della prima ora) – all’interno del Pd è uno dei pochi cattolici a rivendicare in modo convinto la necessità di costruire un centrosinistra alternativo a quello immaginato dai dossettiani e più in continuità con le idee dei così detti degasperiani di sinistra (o se volete i popolari). In campo economico, la forbice tra questi due Pd corrisponde alla distanza tra chi prova a portare avanti l’idea di un centrosinistra voglioso di promuovere una concezione forte dello stato (e una robusta diffidenza nei riguardi del mercato) e tra chi sogna di costruire un centrosinistra non devoto alla vecchia economia sociale di mercato ma sensibile invece al cristianesimo liberale degasperiano (dunque, per semplificare, liberisti vs neo-statalisti). E se volessimo nobilitare lo scontro atomico tra Bindi e Renzi potremmo dire che dietro la contesa si indovina anche questa lontananza culturale.

    I dossettiani però, per quanto molto vivaci, nel mondo cattodemocratico sono una minoranza e la guerra dossettiani vs degasperiani è insufficiente a spiegare la battaglia tra i cattolici nel Pd. La vera questione, a ben vedere, è che la sfida lanciata da Renzi su questo campo riguarda più i suoi simili che i suoi dissimili, e insomma più i degasperiani che i dossettiani. Enrico Letta, Franco Marini, Giuseppe Fioroni, infatti, provengono da una tradizione popolare (tutti ex Ppi) che in linea teorica si riconosce poco nei principi dossettiani e si riflette di più (con le dovute sfumature) nella dottrina degasperiana: e questo vale sia per quanto riguarda i principi economici, sia per quanto riguarda l’idea stessa di partito. Tradizionalmente, i popolari di tendenza degasperiana sono quelli che a sinistra portano avanti da decenni sia il principio “il liberismo è di sinistra” (lo diciamo per semplificare) sia l’idea che un partito moderno non possa rinunciare al progetto di diventare un centro di gravità capace di attirare al suo interno non solo i tradizionali elettori di sinistra. Concetti che da sempre Letta, Marini e Fioroni condividono, e dunque su questo punto i quattro dovrebbero essere in sintonia con il sindaco rottamatore. Non è così. E a guardar bene l’accusa implicita che Renzi rivolge ai suoi vecchi amici popolari è legata proprio a questo punto specifico, ed è un’accusa pesante. Renzi infatti si rivolge ai Letta e ai Fioroni con il tono e lo sguardo di chi, avendo colto un vuoto politico da colmare, rimprovera i suoi vecchi compagni di partito (erano tutti della Margherita, tra l’altro) per aver rinunciato ad alzare la voce su questi temi, per essersi rassegnati a diventare dei “cattolici di testimonianza” e delle figurine insomma destinate a ricoprire magari sempre più ruoli di rappresentanza (tutti i cattolici importanti, tranne Fioroni, in fondo hanno incarichi importanti nel Pd) ma incapaci di far diventare maggioritarie le proprie battaglie culturali all’interno del partito. E’ la vecchia storia del complesso del vicesindaco, ovvero del cattolico che si auto-convince di essere figlio di un Dio minore e si auto-condanna all’eterna marginalità politica (teoria ben descritta ieri da Giorgio Armillei su un seguitissimo blog, “Landino”, curato da alcuni ex Fuci): e chi conosce Renzi sostiene non sia un caso se alla fine di ogni tappa del suo tour il sindaco ripeta sempre una frase del tipo: “Sono cristiano, sono cattolico, se qualcuno non vorrà votarmi per questo lo ringrazio”.

    Se il sindaco di Firenze abbia ragione o no a rimproverare su questo punto i suoi vecchi compagni di partito è questione da discutere ma sta di fatto che oggi per capire qualcosa in più sull’altra sfida del Pd non bisogna fossilizzarsi troppo sulla rottamazione ma forse, ogni tanto, bisogna partire anche da qui.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.