Te ne vai o no?

Inchiestina sul “bel gesto”, dal Cav. a tre quarti del Pd

Marianna Rizzini

Sono giorni di gloria per il bel gesto evocato, negato, vivamente consigliato: farsi da parte, farlo prima che qualcuno ti dica “vattene”, farlo prima che se lo intesti Matteo Renzi (se vinco le primarie del Pd, Massimo D’Alema è fuori dal Parlamento, ripete allo sfinimento il sindaco di Firenze), fare una cosa alla Giuliano Amato (che nel 2008, alla vigilia delle elezioni, disse cari ragazzi non mi ricandido, metteteci una donna, io lascio il Parlamento), farla mentre a destra ci si interroga su Angelino Alfano che annuncia: “Silvio Berlusconi è pronto a non ricandidarsi per unire il centrodestra”.

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    Roma. Sono giorni di gloria per il bel gesto evocato, negato, vivamente consigliato: farsi da parte, farlo prima che qualcuno ti dica “vattene”, farlo prima che se lo intesti Matteo Renzi (se vinco le primarie del Pd, Massimo D’Alema è fuori dal Parlamento, ripete allo sfinimento il sindaco di Firenze), fare una cosa alla Giuliano Amato (che nel 2008, alla vigilia delle elezioni, disse cari ragazzi non mi ricandido, metteteci una donna, io lascio il Parlamento), farla mentre a destra ci si interroga su Angelino Alfano che annuncia: “Silvio Berlusconi è pronto a non ricandidarsi per unire il centrodestra”. Ma alla fine, chi è che se ne va? Qualcuno, già che c’è, nel Pd si porta avanti (“la nostra generazione ha fallito, è giusto passare la mano”, dice Pierluigi Castagnetti sulla Stampa); qualcun altro con humour si attrezza (“nella prossima legislatura farò il nonno, se mia figlia me lo consente”, dice su Rep. Ugo Sposetti, tesoriere storico dell’ex Pci-Pds-Ds). L’ex ministro della Cultura Giovanna Melandri, poi, lancia l’associazione filantropica “Uman”, oggi a convegno a Roma sul tema “insegnare a investire nel sociale”, ma si trova nel contempo a dover smentire Repubblica che già ci legge un suo “addio” alla politica (“il mio non è un addio”, ha detto Melandri a Radio Città Futura, “ho solo risposto a una domanda citando De Gasperi che definisce la politica ‘la realizzazione dei progetti’”).

    Ma anche se il limite dei tre mandati è stato reso meno limitante nello statuto del Pd (tetto massimo a 15 anni, varie eccezioni previste), la domanda che aleggia è sempre la stessa: “Che cosa farà D’Alema?”, ci si chiede in corridoi, segretariati e protettorati (di altri leader politici), e qualcuno torna con la mente al D’Alema d’inizio estate, “politicamente non contrario a una discussione sul ricambio”. Questo non significa “non ricandidarsi”, “come non significa che il destino di D’Alema riguardi necessariamente il Parlamento: D’Alema fa politica in mille modi”, dice un esegeta del dalemismo. D’Alema tiene molto al ruolo di presidente del Copasir, D’Alema ha l’occhio sull’Europa come presidente della fondazione progressista Feps, D’Alema, da ItalianiEuropei, si è già preparato a un futuro alla Giuliano Amato (dovesse essere quella la strada che gli si para davanti), ma non c’è niente di automatico, ché nel mondo dalemiano prevale un’altra idea: “E’ il Pd che deve decidere che cosa fare rispetto a un gruppo dirigente storico, e rispetto a un insieme di storie e competenze”. Un’idea in linea con il D’Alema del 2011, che alla festa democratica di Pesaro, dibattendo a distanza proprio con Matteo Renzi, di ricambio parlava (“sia chiaro che non mi candido a nulla, verranno dei giovanotti bravi…”) ma senza rinnegare il Dna e la psicologia della sua generazione (i giovanotti devono “dimostrare di saper governare” come a suo tempo hanno fatto “i vecchi”).

    Bersani promette un ricambio morbido
    Sulla testa dei politici di lunga esperienza, non necessariamente votati all’autorottamazione, aleggia l’interrogativo “che faremo qui?”, anche se dal lato Bersani si assicura ricambio “morbido” e niente strappi. C’è la linea Rosy Bindi (ma quale beau geste) e la linea Walter Veltroni (stiamo a vedere). Ma ieri, sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco si interrogava proprio sul “silenzio” di Veltroni, a suo avviso stranamente taciturno su Renzi: “…  Si può azzardare un’ipotesi”, scriveva, “Veltroni non ha appoggiato Renzi perché, comprensibilmente, non ha voglia di fare la fine che fece Giacomo Mancini all’epoca del Midas (1976), quando l’emergente Bettino Craxi sbaragliò la vecchia oligarchia (dei De Martino, Lombardi eccetera). In quel frangente, fu Mancini il king maker, colui che favorì la vittoria dell’emergente, ma, dopo un breve lasso di tempo, venne egli stesso emarginato dalla nuova dirigenza del Psi”. Veltroni a suo tempo, nel 2009, si è dimesso da segretario, chiedendo “scusa” per non essere riuscito a realizzare il Pd sognato al Lingotto e chiedendo un trattamento diverso per il suo successore, ma non è neppure andato in Africa, e anzi già nel 2010 si è fatto sentire dalle colonne del Corriere (“scrivo al mio paese e dico che cosa farei”). E all’ultimo dibattito con Renzi, Veltroni si è ribellato al “voi” con cui Renzi di nuovo rottamava i suoi predecessori sottolineando che ognuno ha la sua “storia” e la sua coerenza.
    E insomma nel Pd, più che passi indietro, per ora prevalgono (prudent) passi del gambero.

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    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.