In Iran l'inflazione alta aiuta il governo e danneggia l'opposizione

Daniele Raineri

Tesi: la moneta iraniana, il rial, sta perdendo il suo valore contro il dollaro a un ritmo che non è sostenibile a lungo; è l’effetto delle sanzioni internazionali, che quindi si stanno dimostrando efficaci; l’iperinflazione scatenerà la rabbia della piazza contro il regime. In questi giorni i giornali hanno raccontato così la crisi monetaria in Iran, lasciando pure intravedere scenari azzardati, come la possibilità di un regime change a Teheran indotto dal collasso dell’economia.

    Roma. Tesi: la moneta iraniana, il rial, sta perdendo il suo valore contro il dollaro a un ritmo che non è sostenibile a lungo; è l’effetto delle sanzioni internazionali, che quindi si stanno dimostrando efficaci; l’iperinflazione scatenerà la rabbia della piazza contro il regime. In questi giorni i giornali hanno raccontato così la crisi monetaria in Iran, lasciando pure intravedere scenari azzardati, come la possibilità di un regime change a Teheran indotto dal collasso dell’economia.
    C’è una seconda scuola di pensiero che dice però l’opposto: non c’è iperinflazione in Iran; l’inflazione che c’è è creata e controllata dal governo iraniano per aumentare il suo potere sul paese; le sanzioni internazionali non hanno effetto; da questa crisi monetaria il regime ne esce rafforzato e i suoi oppositori indeboliti.

    Come può essere? Il fatto è che l’ottanta per cento della popolazione iraniana è povero e non risente nella vita quotidiana del precipitare del rial contro il dollaro, perché consuma soprattutto beni che prende dal mercato interno e usa sempre e soltanto il rial. Vive al riparo dalla svalutazione. “La loro vita quotidiana non prevede nemmeno l’uso dei dollari – scrive Business Insider, che ha fatto un’ottima sintesi della seconda scuola di pensiero – vanno al lavoro, ricevono la loro paga giornaliera, la spendono per acquistare pane e pollo e ne ottengono sempre la stessa quantità, giorno dopo giorno. In Iran non si usano dollari per comprare le uova”.
    La classe meno abbiente è incidentalmente anche quella che ancora sostiene il regime e che alle elezioni del 2005 ha fatto la fortuna del presidente Mahmoud Ahmadinejad, considerato per i suoi modi frugali e la sua fama di incorruttibile un outsider rispetto all’establishment pasciuto e corrotto, e per questo votato in massa.

    A uscire distrutta dalla svalutazione contro il dollaro è invece la classe media con aspirazioni internazionali, proprio quella che è tradizionalmente più ostile al regime.  Soffre perché non può più permettersi i beni che prima importava dall’estero, come gli iPhone – tanto per fare un esempio simbolo – o perché, come nel caso dei bazaari, i commercianti, non riesce più a fare affari con l’estero. Ma le importazioni di beni pagati in dollari non sono tutto, anzi, sono soltanto un settore limitato. Sono per i “fighetti di Teheran nord”, tanto per usare una definizione di strada, quindi quelli che nel 2009 hanno protestato contro la rielezione di Ahmadinejad ma non sono riusciti a coinvolgere il resto del paese, anzi, che sono stati menati dai bassiji, i picchiatori prezzolati che vengono dalla fascia più povera e però più attaccata allo status quo attuale.

    Il governo riesce a scaricare il peso dell’inflazione contro la middle class e a proteggere i suoi sostenitori perché in Iran il cambio tra rial e dollaro non è deciso da un mercato aperto, come succede negli altri paesi. Il cambio ufficiale è invece stabilito dal governo e le compravendite passano per un “Centro scambio valute”. Non soltanto: non esiste un solo tasso di scambio ufficiale, ma più tassi ufficiali, a seconda dei beni. Il governo ha diviso tutti i beni importati in dieci categorie, e per i beni compresi nella categoria 1, cibo e medicinali, il cambio è quello più basso e vantaggioso, vale a dire che servono meno rial contro un dollaro (attorno a tredicimila). Poi via via a salire, per gli altri beni, il tasso di cambio diventa sempre meno vantaggioso. La conseguenza è che il mercato dei beni che interessano alle classi più pro regime non soffre la svalutazione o la soffre comunque molto meno di quanto accade ai mercati dei beni della classe media. Per riassumere la linea: il governo si sforza di tenere il prezzo del pollo a livelli normali ma ha abolito le borse di studio per gli studenti iraniani all’estero. Bene per chi non ha intenzione di muoversi dall’Iran e tanto peggio per chi guarda al mondo esterno.

    La svalutazione del rial contro il dollaro e la punizione collettiva toccata alla classe media non sono fatti avvenuti ora, all’improvviso, ma sono stati preparati nel tempo dalla classe politica dirigente. E spiegano perché il governo non si sente troppo minacciato dall’ “iperinflazione”, che dal luglio 2010, quando sono entrate in vigore le sanzioni, ha deprezzato il rial del 71 per cento. Il disastro monetario non conduce per forza al regime change, come dimostrano i casi dello Zimbabwe (2008), dove Robert Mugabe è ancora al potere, e della Corea del nord (dal 2009 al 2011), dove la dinastia dei Kim è inamovibile.

    Solo il dieci per cento di debito
    Ehad Mostaque, analista della Religare Capital Markets ripreso da Izabella Kaminska del Financial Times, sostiene che in Iran i fondamentali economici stanno bene. La bilancia tra import ed export è in sostanziale pareggio, attorno ai 55-60 miliardi di dollari. Il governo ha a disposizione anche una riserva di valuta straniera da 100 miliardi di dollari e novecento tonnellate di oro. In un’economia da 480 miliardi di dollari, vuol dire che il collasso non è neanche all’orizzonte. Inoltre, dice Mostaque, i beni di consumo base come derrate alimentari e gasolio arrivano ancora sul mercato allo stesso prezzo, e il governo non ha più intenzione di ritirare i sussidi che aiutano la popolazione. L’Iran ha avuto un surplus di cassa ininterrotto per 13 anni e ha un debito minimo, attorno al 10 per cento del prodotto interno lordo (quello dell’Italia è del 124 per cento).
    Le sanzioni internazionali si fanno sentire e se non ci fossero l’Iran avrebbe venduto greggio per 110 miliardi di dollari e non per soli 40 – secondo le proiezioni – ma non sono capaci di innescare un cambio ai vertici del potere. Al massimo, faciliteranno la caduta di Ahmadinejad, che però è già in disgrazia da tempo con l’establishment politico e religioso che conta, che non piangerà troppo.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)