Piccolo Concilio
Il Papa diffidente sullo “spirito del Concilio”, meglio stare alla lettera
I padri sinodali l'hanno capito bene: non c'è nuova evangelizzazione senza una chiara comprensione di cosa è stato il Concilio Vaticano II, l'evento che ha lanciato la chiesa cattolica dentro le viscere del mondo contemporaneo. Anche questo concetto ripete Benedetto XVI lasciando ieri per due ore l'aula del Sinodo per l'udienza generale del mercoledì. In una catechesi carica di ricordi, Ratzinger parla del “suo” Concilio, l'assise convocata da Giovanni XXIII per “far parlare la fede in modo rinnovato, più incisivo, mantenendo però intatti i suoi contenuti perenni, senza cedimenti o compromessi”.
I padri sinodali l’hanno capito bene: non c’è nuova evangelizzazione senza una chiara comprensione di cosa è stato il Concilio Vaticano II, l’evento che ha lanciato la chiesa cattolica dentro le viscere del mondo contemporaneo. Anche questo concetto ripete Benedetto XVI lasciando ieri per due ore l’aula del Sinodo per l’udienza generale del mercoledì. In una catechesi carica di ricordi, Ratzinger parla del “suo” Concilio, l’assise convocata da Giovanni XXIII per “far parlare la fede in modo rinnovato, più incisivo, mantenendo però intatti i suoi contenuti perenni, senza cedimenti o compromessi”. Un’assise ancora da riscoprire. Come? Tornando ai documenti. “Dobbiamo liberarli”, dice il Papa, “da quell’ammasso di pubblicazioni che invece di farli conoscere li hanno nascosti”. Parole inedite che precedono di pochi minuti l’uscita di un secondo testo, anch’esso inedito, scritto dal Papa quest’estate “a castello” per l’anniversario (oggi) dei cinquant’anni di apertura del Vaticano II. Si tratta dell’introduzione dei suoi scritti conciliari pubblicata da Herder e anticipata da un numero speciale dall’Osservatore Romano.
Il Vaticano II è stato un avvenimento unico nella storia della chiesa. Altri Concili lo hanno preceduto, si legge nel testo, “convocati per definire elementi fondamentali della fede, soprattutto correggendo errori che la mettevano in pericolo”. Nicea (325) contrastò l’eresia ariana. Efeso (431) definì Maria madre di Dio. Calcedonia (451) affermò l’unica persona di Cristo in due nature, divina e umana. Trento (XVI secolo) chiarì punti essenziali della dottrina rispetto alla Riforma protestante mentre il Vaticano I parlò del Papa e dell’infallibilità. Ma il Vaticano II fu altro. Dice Ratzinger: “Quando venne convocato non c’erano particolari errori di fede da correggere o da condannare, né questioni di dottrina da chiarire”. C’era, piuttosto, la necessità di delineare “in modo nuovo il rapporto tra la chiesa e l’era moderna, tra il cristianesimo e certi elementi essenziali del pensiero moderno, non per conformarsi a esso ma per presentare a questo nostro mondo che tende ad allontanarsi da Dio l’esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza”.
Ratzinger ricorda Giovanni XXIII che quando aprì il Concilio aveva innanzi a sé “un cristianesimo che sembrava perdere sempre più la sua forza efficace”. Di qui la necessità dell’“aggiornamento”. Un compito che “i singoli episcopati” interpretarono in modo differente. L’episcopato tedesco puntava “sull’ecumenismo”, per altri “tema forte era l’ecclesiologia”. Un tema importante per gli episcopati centroeuropei “era invece il rinnovamento liturgico”. Ma il tema chiave lo toccarono i francesi, “il cosiddetto schema XIII, il rapporto fra chiesa e mondo contemporaneo”. Dice ancora Ratzinger: “La chiesa che in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in un rapporto negativo con l’età moderna. Le cose dovevano rimanere così?”. Il Concilio rispose di no, soprattutto con due testi. Quello sulla libertà religiosa nel quale si superò la dottrina di Pio XII della mera tolleranza con il concetto del “diritto di scegliere il proprio culto” e quello sulle relazioni con le religioni non cristiane (Nostra Aetate). Un testo, quest’ultimo, “il cui processo di ricezione mostra una debolezza”. Quale? “Esso parla – dice ancora il Papa – della religione in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione”. Ma in generale il messaggio che Ratzinger tiene a sottolineare è uno: i padri conciliari non volevano una chiesa diversa. Per questo, “un’ermeneutica della rottura del Concilio è assurda, contraria allo spirito e alla volontà dei padri stessi”.
Al centro dei lavori del Sinodo c’è il tema della trasmissione della fede, il medesimo tema che era sotteso al Concilio. Non solo come comunicare la fede ma anche quale fede. Il prefetto dei vescovi Marc Ouellet ha tenuto ieri una lunga relazione sulla Verbum Domini, l’esortazione apostolica del 2010 nella quale Ratzinger spiega che senza il riferimento al testo biblico non vi può essere vera trasmissione. Per Ouellet un ancoraggio sicuro viene dal magistero che interpreta correttamente la scrittura. Già il cardinale Zenon Grocholewski, poco prima, aveva stigmatizzato quella teologia che non si rifà al magistero ma che “semina continua incertezza e confusione” perché promossa da chi “smania di diventare grande, originale, importante”. Per una parte di chiesa un teologo che non sempre ha offerto certezze sulla fede, quanto zone grigie, è stato Carlo Maria Martini. Non così per i padri sinodali. Nel vivace dibattito seguito all’intervento di Ouellet si è registrato un lungo applauso quando un presule ha ricordato proprio Martini, “grande esegeta e innamorato di Dio che sulla sua tomba ha voluto che si scrivesse ‘lampada ai miei passi è la tua parola’”.
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