Lo scontro tra pm di sinistra segnalato dal penoso declino di Ingroia
“Mi offende che l’aver sollecitato la politica e la società a fare di più per far emergere la verità venga equivocato da Magistratura democratica, come fossi un Gasparri qualsiasi, per esibizionismo mediatico. Magari alludendo implicitamente al sospetto che io voglia costruirmi una carriera politica”. Così ieri, su Repubblica, un indignatissimo Antonio Ingroia provava a difendersi dalle accuse che gli piovono in capo già da tempo da parte del Csm e, più ancora, di Md, dalla quale annuncia infatti di volersi dimettere, sconfitto e, a suo dire, offeso.
Roma. “Mi offende che l’aver sollecitato la politica e la società a fare di più per far emergere la verità venga equivocato da Magistratura democratica, come fossi un Gasparri qualsiasi, per esibizionismo mediatico. Magari alludendo implicitamente al sospetto che io voglia costruirmi una carriera politica”. Così ieri, su Repubblica, un indignatissimo Antonio Ingroia provava a difendersi dalle accuse che gli piovono in capo già da tempo da parte del Csm e, più ancora, di Md, dalla quale annuncia infatti di volersi dimettere, sconfitto e, a suo dire, offeso. Ingroia, ben supportato dalle domande di Liana Milella, prova a ribaltare il confronto imputando a Md un preoccupante cedimento: “Mi illudevo che il processo di omologazione culturale in corso da anni trovasse in Md un punto di resistenza”. In realtà, le accuse “ingenerose” al pm palermitano nascono dai metodi e dall’inconsistenza delle sue indagini sulla cosiddetta trattativa, a partire dal completo discredito in cui è precipitata la sua principale “icona dell’antimafia”, il gran Pataccaro Massimo Ciancimino. Proprio il giorno prima, sul Corriere della Sera di martedì, il resoconto di un’intercettazione suona come una pietra tombale sull’ambiguo testimone. C’è un Massimo Ciancimino che si vanta: “Mah… io sono vendibile, subito. Se vogliono mettere a posto mi rimangio tutto”. Alle intercettazioni di Massimo Ciancimino, uno dei pilastri fondamentali su cui Ingroia aveva costruito alcuni dei teoremi che gli hanno dato gloria mediatica, si aggiunge una serie di prese di distanza inequivocabili. Prima l’attacco di Elisabetta Cesqui, già componente del Consiglio superiore della magistratura per conto di Magistratura democratica: “Credo che un processo che nasce ruminando le carte di altri processi e su un’ipotesi di accusa scivolosa, nasca con un vizio d’origine logico prima che giuridico; mi sono formata l’opinione che sia un processo inutile e tutti i processi inutili tendono a essere dannosi”. Poi addirittura Maria Falcone, a nome della Fondazione intestata a suo fratello, ha ricordato: “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non hanno mai partecipato a convegni politici”.
Il 19 settembre scorso un documento dell’esecutivo di Magistratura democratica aveva sentenziato: “No alla sovraesposizione e alla ricerca di consenso”. Il comunicato non cita apertamente Ingroia ma si evidenzia “l’inopportunità della ricerca esasperata di esposizione mediatica, anche attraverso la sistematica partecipazione al dibattito, da parte di magistrati che approfittano dell’autorevolezza e delle competenze loro derivanti dallo svolgimento della attività giudiziaria e utilizzano nel confronto politico le conoscenze acquisite e le convinzioni maturate nel contesto di un’indagine”. Solo tre giorni dopo, in un’intervista a Repubblica, il presidente di Md, Luigi Marini, cercava di attenuare il colpo: “Non siamo normalizzatori”, spiega, “il comunicato non ha citato Ingroia proprio per evitare che il dibattito venisse ridotto a uno scontro tra l’associazione e un bravissimo magistrato come Antonio. Noi volevamo parlare non solo a lui, ma a tutti i magistrati che a Palermo e altrove imboccano percorsi analoghi”.
Così, sabato scorso, al consiglio nazionale di Md, quello che era atteso come un sommario processo a Ingroia è diventato un dibattimento. Dissenso della sezione di Palermo rispetto al documento dell’esecutivo, con il segretario Lia Sava che ricorda come “Ingroia non ha mai sollecitato il consenso dei cittadini”. Dissenso del pubblico ministero Gaetano Paci nei confronti della sezione di Palermo: “Più che il merito dell’indagine, io ne contesto il metodo e la gestione”. Finisce con Ingroia “offeso” per quell’“atto d’accusa politico e personale”, e che prospetta di andarsene.
Lo scontro tra la magistratura e il fronte giustizialista nelle sue componenti più militanti, fino a poco tempo fa uniti a falange dalla presenza in campo del gran nemico Silvio Berlusconi, va avanti ormai da mesi. Cambiata la situazione storica, più di un osservatore ha notato che si sta passando “dal periodo di un Terrore giacobino e scomposto a quello del Termidoro”.
Mario Cicala, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, commentando questa evoluzione col Foglio si dice disorientato: “Io sono sempre stato a favore di quella visione tradizionale secondo cui un magistrato non deve intervenire nel dibattito politico. Poiché questa visione ha sempre avuto il dissenso di Magistratura democratica, non riesco a capire la ragione dell’attuale polemica tra Md e Ingroia. Mi sembra un poco anacronistico che, dopo aver sempre sostenuto l’opportunità della partecipazione al dibattito politico dei magistrati, adesso Md rilevi nel comportamento di Ingroia una qualche smagliatura. A meno di non pensare che veramente ci sia aria di Termidoro”. Evidentemente su opposte sponde ideologiche, è lo stesso disorientamento che al Foglio esprime Vittorio Teresi: il procuratore aggiunto di Palermo e segretario dell’Anm di Palermo, cui si deve uno degli interventi più forti in difesa della contestatissima partecipazione di Ingroia alla festa del Fatto: “Una risposta di civiltà a una collettività che in questi mesi ha donato il proprio consenso a magistrati impegnati in delicate indagini che potrebbero svelare scomode verità sui rapporti tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra anche in relazione alle stragi del 1992 e 1993”, la definì. Adesso, con il Foglio, Teresi stigmatizza un documento che sembra auspicare un tipo di magistratura non più corrispondente “a quello che probabilmente la stessa Md anni fa ipotizzava, caldeggiava e cercava di affermare nella cultura generale, cioè un magistrato partecipativo, un magistrato che non calasse soltanto le proprie decisioni dall’alto, ma che partecipasse al dibattito pubblico culturalmente alto”. La differenza con Cicala è però che Teresi non se la sente di parlare di normalizzazione o Termidoro. “Non mi piacciono i processi alle intenzioni, preferisco fare osservazioni sui fatti e sulla concatenazione temporale di questi fatti”. “Non interessa dunque sapere perché ha agito in questo modo, semplicemente non mi piace questo modo di agire”. E ancora “Non posso dire né voglio dire che Md abbia intenzionalmente voluto attaccare Ingroia. Il punto è che la scelta dei tempi per sollevare determinate questioni anche se di carattere generale, anche culturalmente elevate, fosse o meno la più opportuna, posto che per altri versi a causa della disinformazione, a causa degli attacchi istituzionali, a causa delle iniziative del Csm, Ingroia e i colleghi che si occupano della trattativa erano già abbastanza sotto attacco senza bisogno di aprire un ulteriore fronte da parte di Md”.
Giunti a questo punto, nel mezzo di uno scontro tra opposte visioni e opposte pratiche, sarebbe interessante avere un’interpretazione autentica da parte della dirigenza di Md. Interpellato dal Foglio, però, il gip di Palermo Piergiorgio Morosini ricorda di essersi di recente autosospeso proprio perché bisognoso di concentrarsi sul lavoro, in un momento in cui il “pluralismo dei punti di vista” nell’organizzazione è estremo. E gentilmente consiglia di consultare il presidente Luigi Marini, il quale a sua volta ricorda però come il suo sia un ruolo non tanto politico, quanto di “equilibrio interno al gruppo”. Insomma, in un momento in cui “la situazione è delicata” e “abbastanza in movimento”, le sue esternazioni rischierebbero di “creare problemi”. E’ in pratica un’ammissione di totale acefalia che potrebbe forse indurre a riconsiderare l’immagine consueta di Md come gioiosa macchina da guerra normalizzatrice al servizio del Pci-Pd, e a privilegiare piuttosto quella di un movimento ormai a un bivio che lo lacera in modo drammatico. Marini confessa comunque che il caso Ilva, oggetto di un altro comunicato, potrebbe essere occasione di una ulteriore importante riflessione: “Non è possibile che un magistrato che si trova a dover trattare una vicenda socialmente e politicamente complessa venga tirato da una parte e dall’altra. Quello che si è scritto oggi su Taranto è veramente incredibile. La prima pagina del Sole 24 Ore che parla di magistrati che agiscono per vendetta è una cosa che non avevo mai visto. Mi domando cosa può essere successo per far sì che un giornale così istituzionale faccia un’accusa così immotivata e pesante a dei magistrati che stanno lavorando”. E la risposta a questa domanda? “Si è perso un po’ il senso dei ruoli. Il dibattito interessante da fare, anche se non mi sento ancora di aprirlo, e su quanto noi stessi abbiamo contribuito a modificare i ruoli tradizionali che garantivano al magistrato un certo spazio di rispetto da parte di tutti”. A sua volta l’ex presidente dell’Anm osserva che un certo protagonismo individuale di certi magistrati c’è sempre stato, “ma la stragrande maggioranza dei magistrati svolge il proprio lavoro in situazioni che non richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass media”. Quanto a Ingroia, lo definisce “un pm che è stato impegnato in importanti processi, di fronte a questi ci possono essere valutazioni diverse, ma bisogna avere rispetto. Ma bisogna avere rispetto per la libertà di critica quando ci sono situazioni e opinioni che non trovano d’accordo tutti. E ci sono stati comportamenti che indubbiamente hanno lasciato perplessità”.
Luciano Violante, che prima di essere presidente della Camera era stato a sua volta non solo magistrato e docente di diritto e procedura penale, e da mesi conduce una battaglia al calor bianco a difesa dei bastioni dei Quirinale contro gli attacchi della procura palermitana, parlando col Foglio inizia con una diplomatica attestazione di stima per Ingroia: “E’ tra i nostri migliori professionisti dell’indagine penale”, concede. Ma ritiene che “il processo di Palermo e i magistrati che lo stanno seguendo sono stati usati per una battaglia politica contro il presidente della Repubblica e contro il governo Monti dal Fatto, Grillo e Di Pietro”. In questo quadro, “la reazione di Md, se si fermasse alla rampogna, sarebbe sterile. Sarebbe invece di straordinaria importanza se affrontasse il tema di fondo e cioè come si imposta in termini di democrazia e responsabilità il rapporto tra procure della Repubblica (il resto della magistratura non c’entra) e mezzi di comunicazione”. Termidoro? “Non è il Termidoro. E’ una corretta sensibilità costituzionale al tema dell’equilibrio nei comportamenti tenuti fuori delle funzioni, unita al fastidio per una sovraesposizione mediatica che ha finito con l’investire tutta la magistratura”. E l’accusa di Travaglio allo stesso Violante, di una flagrante contraddizione tra i tempi in cui criticava Cossiga e la sua attuale difesa di Napolitano? “Il presidente Cossiga in alcune fasi della sua vita ha dileggiato i magistrati e minacciato il Csm. Il presidente Napolitano ha sempre rispettato la magistratura e ha chiesto alla Corte costituzionale di valutare se è intercettabile, seppure indirettamente, il presidente della Repubblica”.
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