Oggi, 11 ottobre, s'apre il Concilio

Stefano Di Michele

Poi è uscito il sole – oggi a Roma, 11 ottobre del 1962. Grazie a Dio. Il sole sulle teste di tutte le Eminenze, di tutte le Eccellenze, di ogni Reverendo Padre. Il sole quieto dell’ottobre romano allunga qualche raggio tiepido sui Patriarchi, sulle barbe di ogni tipo – “dette all’imperiale, barboni immensi, piccoli pizzi squadrati”, dettagliano i giornali. Tremila vescovi che preparano il terremoto – alcuni; altri, il terremoto temono. Il sole, soprattutto, sulla testa di un vecchio Papa – stanco, già condannato dalla malattia, testardo.

    Poi è uscito il sole – oggi a Roma, 11 ottobre del 1962. Grazie a Dio. Il sole sulle teste di tutte le Eminenze, di tutte le Eccellenze, di ogni Reverendo Padre. Il sole quieto dell’ottobre romano allunga qualche raggio tiepido sui Patriarchi, sulle barbe di ogni tipo – “dette all’imperiale, barboni immensi, piccoli pizzi squadrati”, dettagliano i giornali. Sulla corona d’oro dei greci, i copti, i maroniti, i caldei, gli uniati, “con i loro paramenti sacri particolari, che ricordavano l’oriente nei quadri veneziani”, scrive Luigi Barzini sull’Europeo. Tremila vescovi che preparano il terremoto – alcuni; altri, il terremoto temono. Il sole, soprattutto, sulla testa di un vecchio Papa – stanco, già condannato dalla malattia, testardo. Ogni tanto tira fuori da qualche tasca misteriosa dei paramenti un fazzolettone con il quale si asciuga il sudore. Pessimo segno, dicono i curiali: a ottobre non fa così caldo da dover sudare “come Cristo in croce”, quel sudore annuncia altro. Tra un mese compirà ottantuno anni, Giovanni, non arriverà a ottantadue. “Tutti i giorni sono buoni per nascere e tutti i giorni sono buoni per morire… Le valigie son fatte e sono pronto a partire…”. Sono passati appena quattro anni dalla sua elezione sul trono di Pietro – doveva essere di passaggio, passerà tirandosi dietro un intero universo di vecchie suggestioni e di fede rituale e di un linguaggio oscuro a volte ai credenti, quindi oscuro a volte a Dio: ché “la chiesa è un giardino da coltivare e non un museo di antiquariato”, così da perdere anche “alcune nostre cattive abitudini”. C’è il sole, buon segno, perché fino a poco prima che il più incredibile spettacolo nella storia millenaria della chiesa andasse in scena, pioveva. Segno pessimo, la pioggia – si pensava. Ora: prima pioggia, poi sole. Un po’ si piangerà, si dice, per poi sorridere.

    Invece soltanto diluviava e tuonava, novantatre anni fa, quando Pio IX, per la festa dell’Immacolata Concezione, dicembre del 1869, aprì il suo, di Concilio, il Vaticano I. Brutto presagio – quell’ira di acqua e lampi infuocati dal cielo, e infatti dieci mesi dopo tutto era finito: ai tuoni di dicembre seguirono le trombe dei bersaglieri di settembre. La curia è sospettosa, è inquieta, a tratti cinica e maliziosa. Lo è sempre stata, adesso più che mai. Come un villaggio leopardiano, come una Fortezza Bastiani, sta lì nei secoli piantata immobile nei suoi riti, nella lentezza dei suoi passi, nelle sue lotte, nei suoi silenzi – più che nelle sue parole. Sente il vento che arriva, anche se – narrano le cronache – all’ombra dei sacri palazzi non molta è la considerazione per quel Papa del contado bergamasco, e ancor meno per quest’idea bislacca di adunare tutti i vescovi del mondo a parlare a ruota libera e a deliberare. Le cronache di allora, come gli imperdibili diari di Benny Lai, registrano questi umori neri, quel po’ di cinismo pretesco che un po’ sempre toglie alla fede, e molto ha dato alla pratica ecclesiastica. E dunque, “è un vento di follia”, e pure “sono protestanti e non lo sanno”, e un preveggente vescovo: “Noi della curia saremo messi sotto accusa. La periferia ha sempre fatto la fronda al centro. Fino a ora era un peccato di maldicenza, un bisbigliare. In Concilio, l’unione dei bisbigli potrebbe divenire un urlo”. E un vescovo piuttosto irruento sull’altro fronte: “Il potere della curia deve finire, come è finita l’epoca della schiavitù…”. E cardinali già di gran nome, come Giuseppe Siri, il prediletto di Pio XII, l’arcivescovo di Genova che guarda tutto questo spettacolo con occhio proccupato, angosciato, a volte disincantato. “E’ solo Roma che ha sempre difesa la Verità contro tutti. Fuori Roma tutti più o meno hanno avuto antipapi, eretici, scismatici, uomini fuori strada. La battaglia sarà dura, ma il Signore ci aiuterà…”, dirà tra pochi mesi, e il dubbio mai lo lascerà: la sua paura della diffusione, nel corpo della chiesa di “Papetti” – “il che è contro il concetto giuridico divino dello Episcopato”. Così alla fine sarà – la pietra delle fondamenta resta solida, ma l’immagine di pietra non sarà più ricomposta. Tremila preti accompagneranno oggi l’inizio dei lavori con il “Veni Creator Spiritus” – le parole a volteggiare tra le braccia della Pietà di Michelangelo, le colonne del baldacchino del Bernini, gli arazzi incantati di Raffaello.

    Ecco, il sole dice che è il momento di iniziare. “E’ l’ora. Dal portone di bronzo scivolano fuori le prime sei figure della processione, poi altre sei, e altre, e altre. Uno spettacolo da mozzare il fiato. La lunga teoria di vescovi si dipana per la piazza fino alla basilica come un fiume ininterrotto. Ondeggiano nel lento incedere i manti preziosi dei vescovi. Un canto accompagna il fluire delle ieratiche figure. Cento, duecento, mille e siamo ancora al principio della processione. Non sono uomini che sfilano, è la chiesa che scorre, arteria di linfa e di sangue attraverso la terra tra confini di cellule vive… Ecco, finalmente il Papa. Ma nel fiume è anche lui appena un’onda più luminosa, più colorata” (Benny Lai), che scivola tra la folla dei fedeli e la folla dei suoi vescovi trasportato sulla sedia gestatoria. “Il canto gregoriano irrompe da tremila petti. Lo sento scivolare veloce sul pavimento della basilica, andare a svegliare i papi dormienti nei sotterranei…”. Dentro San Pietro, lo sguardo puntato di Luigi Barzini su Giovanni XXIII che legge il suo discorso e invoca anche lui lo Spirito Creatore: “Si vedeva di profilo, curvo, pallido, commosso, con gli occhiali a stanghetta d’acciaio, che leggeva il suo latino. Più che Santo Padre si era tentati di chiamarlo il Santo Nonno, per la veneranda età, la bontà ormai distaccata dalle cose terrene e dai segni del potere, l’espressione casalinga e umana”. Straordinario lo spettacolo fuori – quel corteo di pastori che sfila per ore e ore davanti agli occhi del gregge – straordinario lo spettacolo dentro. Benny Lai, dai suoi diari: “All’interno le file dei vescovi salgono le bancate che si tingono e palpitano d’improvvisa vita. Nel chiuso è una scena allucinante, da incubo. Una selva di bianche mitre, una selva pietrificata tanto è irreale e plastica assieme. Papa Giovanni rilucente di ori, di gemme, di damasco, sembra disceso da un opulento affresco…”. Il canto continua, “invocano tremila uomini, approdati qui da ogni latitudine, bianchi, gialli, neri: Cam, Sem, Jatef, una sola chiesa. Questa chiesa vive un giorno sospesa tra terra e cielo, ai confini dei regni intravisti nelle leggende, predicati dal Vangelo. E il Vangelo è posto sul trono”. Cardinali, arcivescovi e vescovi – quelli entusiasti del vento che sentono già scuotere la loro chiesa millenaria, e quelli che quel vento temono come se fosse in grado di trasportare con sé l’anticristo – fanno atto di obbedienza a Giovanni, “sei figure prone davanti al Papa in rappresentanza di tutti: i primi due baciano la mano, i secondi il ginocchio destro, i terzi il piede”. Ma tocca al Pontefice “l’atto di umiltà suprema, di piegarsi alla terra: ‘Adsumus… Eccoci a te, o Signore…’”. Ciò che sta per mutare ciò che sembrava immutabile sta per avere inizio: “La Madre chiesa si rallegra…”.

    Ma il Concilio Vaticano II è anche un grande evento mondano, mediatico, sorprendente. Le ultime sortite del patriziato romano (da Paolo, il successore di Giovanni, praticamente fatto uscire di scena), gli ultimi splendori che si perdono di un fasto barocco, rinascimentale: le vesti di porpora, gli ermellini, la lunga coda del mantello cardinalizio retta dal caudatario. La gente per strada si gira a guardare incuriosita i primi, quasi esotici, preti in clergyman. Un mondo, un immaginario, con i vecchi riti e le vecchie formule sta per inabissarsi. Perché poi, fino a oggi, sempre in Vaticano la forma è stata sostanza – e la sostanza, così spesso, ostaggio della forma. Con qualche ricaduta anche nei lavori del Concilio. (Per esempio, quando a pochi giorni dall’apertura, i cardinali Döpfner e Suenens chiederanno di permettere ai vescovi di partecipare ai lavori con abiti meno impegnativi di quelli prelatizi e di annullare la celebrazione della messa all’inizio. Montini, il futuro Paolo VI, sarà d’accordo; Siri contrario: “C’è più bisogno di pregare che di pensare”. E annotò il suo incontro con il Papa: “Per le vesti ha apprezzato la sospensiva da me chiesta sulla inopportuna discussione e aveva deciso (fortunatamente) che si continuasse come ora. A questo punto io ho pregato Sua Santità di pensare a che sarebbe successo al primo freddo: sarebbero venuti – senza impaccio di vesti prelatizie – con tutti gli orrori per coprirsi (sciarpe, impermeabili, etc.) e il Concilio sarebbe apparso una carnevalata”). Ma lo spettacolo dentro la basilica è spettacolo anche per le strade di Roma. Lo storie di alcuni vescovi si mutano in curiose storie di cronaca e costume. Sulla Stampa (i giorni del politicamente corretto erano lontani) un titolista, a corredo di un articolo di Vittorio Gorresio, avverte che alla stazione Termini è arrivato “un vescovo negro affamato e senza un soldo”. Ecco la sua storia: “Arriva da Parigi mons. Paul Etoga, vescovo residente di Mbalmayo, nel Camerun, affranto ed affamato. Riuscito a stento a raggranellare nella sua diocesi i soldi per un biglietto aereo di classe turistica dall’Africa a Parigi, giunto a Parigi gli restava il denaro appena sufficiente per arrivare a Roma in treno, seconda classe. Fatta l’ultima spesa non ha potuto comperarsi niente da mangiare per due giorni e viene affidato in consegna alla pia istituzione della Peregrinatio romana ad Petri sedem, creata per assistere i pellegrini poveri, che lo rifocilla, difatti, e lo avrà ospite per tutto il tempo del Concilio. Per il ritorno in Camerun, a suo tempo, mons. Paul Etoga si affiderà alla Provvidenza”. E quell’altro suo confratello giapponese che se ne va in giro per il mondo cristianamente senza passaporto né altro documento d’identità. “Sorride serafico, benedicendo i poliziotti di frontiera. E i poliziotti di frontiera lo credono sulla parola”. I cronisti esperti di cose vaticane, cercano tra le mille e mille facce, quelle di prelati dalle storie strambe, dalle curiose predisposizioni – oltre, si capisce, quella opportuna di fede. “Dov’è il vescovo congolese Busimba considerato anni addietro imbattibile nell’uso dell’arco? E l’africano Amissak, l’indiavolato ‘dribblatore’ di pallone ancora portato ad esempio dalla sua gente? E il sudanese Dud, figlio di un potente capo tribù? E il vietnamita Nguyen-Kim-Dien che non accetta di vivere nel palazzo arcivescovile considerato troppo lussuoso? E l’indiano Gracias e l’inglese Godfrey affettuosamente chiamato zio Bill?”.

    Roma, pragmatica oltre che papalina, si adegua alla nuova stagione. Sono comparsi in città annunci pubblicitari in latino (l’unica lingua, è la supposizione, che male o bene tutti i partecipanti al Concilio dovrebbero conoscere). Altari e cappelle vengono eretti in alberghi, pensioni, hotel. I bar interni vengono sigillati – a rispetto dei padri conciliari, a scanso di tentazioni per i padri conciliari. Intanto, “preghiamo Iddio che il Concilio finisca a primavera, quando il turismo ricomincia, per non vederci abbandonati dalla clientela tradizionale”. Molti cardinali e vescovi risiedono in alberghi lussuosi o case sontuose, altri in povere pensioni, certi in camere ammobiliate. In una, si racconta, c’è un vescovo che si cucina per cena due uova sulla lampada a spirito, e le divide con il suo segretario. Non si sa ancora quanto costerà, alle finanze vaticane, il Concilio, le migliaia di persone (circa due preti per ogni vescovo) giunte, anche se molti a spese della loro diocesi – né si conosce la possibile durata, che certo influirà sui costi. Ma tutti in Vaticano si ripetono la battuta di Pio IX quando vide i conti del Concilio suo del secolo scorso: “Non so se il Papa uscirà da questo Concilio fallibile o infallibile, ma quel che è certo è che ne uscirà fallito”.

    Ma questa è la parte prosaica, terrena dell’evento storico che dentro la basilica ha preso l’avvio – c’è un giovane promettente teologo tedesco, Joseph Ratzinger, un giovane vescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, un vescovo francese durissimo oppositore di ogni innovazione che possa lasciare “a tutte le false religioni la libertà d’espressione”, si chiama Marcel Lefebvre (e qui ancora nessuno lo sa, ma toccherà un giorno al giovane vescovo di Cracovia scomunicarlo). Giovanni ha finito il suo discorso, ha chiamato a fronteggiare “i profeti di sventura” che anche lì, tra le migliaia di mitre bianche voltate verso di lui – quasi tutte di forma romana, alte, ovali, tagliate uguali, ma alcune anche a forma di mitre antiche, giottesche (circa un quinto, un sesto, conteggiano i cronisti), e si mormora che le hanno scelte i prelati più progressisti, come richiamo di una maggiore semplicità – si riparano. Voci, suggestioni. Giovanni lascia la basilica. L’immensa folla comincia a varcare di nuovo le porte di San Pietro. Stasera, dalla sua finestra, il vecchio Papa manderà una carezza ai bambini e guarderà la luna. E la indicherà alla gente giù in piazza. E forse anche ai suoi pastori con le mitre bianche che oggi ha provato a far finalmente uscire dal tepore degli ovili.