Monti, eroe o salvacondotto

Salvatore Merlo

Montecitorio, mattino di ottobre, Pier Ferdinando Casini ha appena riunito deputati e senatori dell’Udc, li abbraccia con lo sguardo, alcuni sono i suoi uomini, li ha scelti lui, altri se li è un po’ trovati in casa secondo le logiche sedimentate di quel partito in franchising che è sempre stato l’Udc: il padrone dello scudo crociato sta a Roma e presta il suo volto rassicurante, ma le truppe e i voti che si condensano attorno a quel simbolo e a quel volto sono sempre appartenuti ai grandi viceré della periferia.

    Roma. Montecitorio, mattino di ottobre, Pier Ferdinando Casini ha appena riunito deputati e senatori dell’Udc, li abbraccia con lo sguardo, alcuni sono i suoi uomini, li ha scelti lui, altri se li è un po’ trovati in casa secondo le logiche sedimentate di quel partito in franchising che è sempre stato l’Udc: il padrone dello scudo crociato sta a Roma e presta il suo volto rassicurante, ma le truppe e i voti che si condensano attorno a quel simbolo e a quel volto sono sempre appartenuti ai grandi viceré della periferia, quelli che un tempo erano i Totò Cuffaro e che oggi invece, per ovvie ragioni, non si portano più con la disinvoltura di una volta. “Se pensate che io non voglia davvero puntare su facce nuove fate male i calcoli”, dice a un certo punto Casini guardando con freddezza il suo piccolo ed eterogeneo esercito di parlamentari. Poi aggiunge, sforzando un tono di tranquillo fatalismo: “E’ inutile che alcuni di voi cerchino di bloccare i nuovi ingressi sul territorio, non serve a niente, tanto ve li ritrovate tutti con Montezemolo qualche giorno dopo. Mettetevelo in testa, dobbiamo rinnovare”.

    Al prossimo giro si cambia dunque, pochi i fortunati che Casini intende salvare e riproporre nella prossima legislatura: innovare per restare, rivoluzionare per conservare con Corrado Passera e Gianfranco Fini, Francesco Rutelli e Raffaele Bonanni; e sembra proprio che la politica italiana, al tramonto della Seconda Repubblica, si attorcigli su un imbroglio linguistico: per Casini c’è “Monti dopo Monti”, o meglio c’è ancora “Casini dopo Casini”, ma con altri compagni di strada, senza più nome nel simbolo, senza più uno scudo crociato. Anche Silvio Berlusconi, pur amletico e attendista, vorrebbe divorziare dal suo Pdl, separare i destini, passare al setaccio la classe dirigente, restituire ai suoi vecchi parlamentari le sembianze di “tante zucche”, la forma in cui si è vantato di averli scoperti prima che il suo tocco magico, furbizia elettorale e carisma pubblicitario, li trasformasse in una schiera di deputati. “Vuole essere circondato da facce fresche, gente nuova”, dice Daniela Santanchè, la pasionaria entusiasta delle invenzioni del Cavaliere appannato eppure un tempo miracoloso: “Anche Alfano dovrebbe fare un passo indietro”. E come Casini, anche il Cavaliere adesso, se pure in ritardo sui tempi della politica, tiene da conto Monti sapendo, che però tutto è finito: con Monti si è esaurito lo schema di una egemonia berlusconiana sulla vita politica e istituzionale.

    Inseguito dagli scandali sulla vita debosciata dei parlamenti regionali d’Italia, il sistema politico si sente compresso tra due torsioni autoritarie: dall’alto il governo tecnico, con Mario Monti, cioè l’ipotesi di una ricostruzione morale, civile e politica; dal basso gli istinti plebei, il grillismo e le procure in movimento senza briglia. Come uscirne? Come sopravvivere? Il Partito democratico, il partito meno afflitto da quel dissanguamento elettorale che ha portato il Cavaliere a grattare adesso il 18 per cento dei consensi, ha Matteo Renzi, il rottamator scortese che – paradosso – secondo Nichi Vendola andrebbe a sua volta rottamato con tutta la sua “subalternità culturale al modello liberista che sta scorticando l’Europa”. Ciascuno, per sopravvivere, vede nell’altro la carcassa consumata, il vecchio arnese da scaricare nello sfasciacarrozze: innovare gli altri per conservare se stessi, un ossimoro, un trucco della morale che diventa arte di navigazione politica. Anche Pier Luigi Bersani deve averlo capito, per vincere deve anche lui “innovare”: la nomenclatura dunque trema, saltano antiche complicità, e a qualcuno si arricciano i baffi un tempo lisci perché il sacrificio s’impone, e c’è chi, per generosità o furbizia, già annuncia di volersi fare da parte; prima di essere spintonato fuori. “Potrei stupire tutti e andarmene”, ha detto a un certo punto D’Alema con tono di sfida (“ma io i voti per farmi rieleggere ce li ho”, ha poi aggiunto), mentre Veltroni tace pensieroso, mentre Rosy Bindi si rimette provocatoriamente alle decisioni del partito (“fate di me quello che vi pare”) e Anna Finocchiaro invece si ribella: “Altri sono i dinosauri”. Bersani ha costruito la sua squadra circondandosi di volti freschi, come Alessandra Moretti, vicesindaco di Vicenza. Tutti dichiarano il fallimento della Seconda Repubblica. “E’ finito il bipolarismo personale”, dice il direttore dell’Unità Claudio Sardo; tutti cantano le virtù del rinnovamento: “Il Pdl è morto”, dice Vittorio Feltri, viva la Terza Repubblica, il nuovo che li rivede protagonisti; Berlusconi riscopre Forza Italia, e Giancarlo Galan, che con lui l’aveva fondata, riscopre il rinnovamento; strana perifrasi, ma dotata di magica permanenza nel vocabolario del Palazzo.

    Nella sua piccola riserva, archiviato il Terzo polo, archiviata ormai da tempo anche la stagione della destra nuova che quasi lo aveva proiettato sul traguardo insperato della successione a Silvio Berlusconi, pure Gianfranco Fini ristruttura casa: ha gettato le fondamenta di un nuovo partito, parallelo alla piccola Fli: “Mille per l’Italia”, una nuova classe dirigente giovanile che circonda un vecchio leader profondamente contrario all’idea del (suo) pensionamento. Riuniti i parlamentari, con implicita crudeltà, la settimana scorsa Fini ha chiesto loro di “coccolare” quelle nuove leve sul cui viso è dipinta la fine del gruppo dirigente che pure, non senza qualche generosità, ha seguìto Fini lungo tutto il tragico esilio dal berlusconismo. E difatti anche il fondatore, e poi rottamatore, di Alleanza nazionale osserva Monti e lo scambia, proprio come Casini, per un salvacondotto politico che rende urgente, proprio come per l’Udc, una profonda cosmesi. Così nel corso dell’ultima riunione pubblica di Fli, all’ultimo piano dell’Air Terminal della stazione Ostiense, a Roma, mentre il rodomontesco Fabio Granata si avventurava nelle critiche al governo tecnico del professor Monti, Fini a un certo punto ha sfoderato uno sguardo freddo e annoiato: “Questo non ha capito niente…”. Monti è l’unico tronco che si tiene a galla nella temperie, e comprensibilmente un po’ tutti cercano di aggrapparsi perché un tipo di egemonia è finita; e un’altra adesso deve cominciare. Con quali protagonisti? Forse gli stessi, o quasi. “Si è concluso un ventennio perduto”, ha scritto Ferdinando Adornato, deputato oggi nell’Udc, una recente vita nel cuore del berlusconismo e una più remota nel cuore della sinistra: ha scritto un libro persuasivo che si intitola “Sos Italia, come uscire dalla notte della politica e dare continuità al montismo” (Rubbettino).

    E’ un manuale del rinnovamento declinato dalle parti di Pier Ferdinando Casini: la perpetuazione di Monti come via di salvezza; “un gabinetto di armistizio che, archiviata la guerra bipolare, permetta a tutti i partiti di cooperare alla ricostruzione della Nazione”. Casini ha costruito il suo nuovo contenitore politico, un’arca per sopravvivere al diluvio universale delle prossime elezioni: si chiama “Italia”, e prevede pure un certo numero di varianti che il leader dell’Udc ha registrato; risulta anche un generoso “Per l’Italia” e un corale “Movimento Italia”, tutte denominazioni alle quali Casini vorrebbe aggiungere nel più dolce dei suoi sogni, in grassetto, anche all’ultimo momento possibile, le due parole salvifiche: “Per Monti”. Scrive sempre Adornato: “Dopo Monti non può che esserci Monti, i partiti non possono tornare alle vecchie divisioni di una volta, come se nulla fosse successo”. E non è troppo lontano, almeno in apparenza, dalla logica che ispira adesso Berlusconi. Peccato che il professore della Bocconi non voglia essere pescato da ami centristi, nessuna rete lo può imbrigliare, nemmeno quella del Cavaliere che a un certo punto, tra le tante idee pazze, ha confessato questa a un sempre più scettico Gianni Letta: “Candidiamo il professor Monti alla testa dei moderati”. Il presidente tecnico del Consiglio non è disponibile a fare da scudo per un sistema che tenta di sopravvivere: Monti non è un salvacondotto per ceti in disarmo. Lo sorico Carlo Galli ha scritto per Laterza un libro (“I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità”) che appare come una risposta, colta e ideologicamente impegnativa, al saggio di Adornato, al progetto di Casini e persino alle architetture un po’ sghembe del Cavaliere. Interrogato sulla perpetuazione del montismo, il professor Galli dice: “Sostenere Monti è legittimo, purché questo sostegno sia una cosa seria”. E nel libro spiega: “Certo, le élites dovranno non solo essere all’altezza del momento presente – cioè far ripartire l’Italia, ovvero propriamente ‘dirigere’, anche con tratti pedagogici –, ma dovranno anche rinnovarsi, ovvero dare spazio a élites nuove”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.