Un Fmi sfiduciato spande pessimismo sull'Euroripresa

Domenico Lombardi

Come anticipato su queste colonne martedì scorso, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita per l’economia mondiale. L’area dell’euro si contrae dello 0,4 per cento nell’anno in corso, trainata dalla performance particolarmente negativa dell’Italia (meno 2,3 per cento) e della Spagna (meno 1,5 per cento). Tra le economie emergenti, quella cinese si attesta su un tasso di espansione che è stato ridimensionato al 7,8 riflettendo proprio l’indebolimento dell’Europa, principale mercato di sbocco delle esportazioni del colosso asiatico.

    Tokyo. Come anticipato su queste colonne martedì scorso, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita per l’economia mondiale. L’area dell’euro si contrae dello 0,4 per cento nell’anno in corso, trainata dalla performance particolarmente negativa dell’Italia (meno 2,3 per cento) e della Spagna (meno 1,5 per cento). Tra le economie emergenti, quella cinese si attesta su un tasso di espansione che è stato ridimensionato al 7,8 riflettendo proprio l’indebolimento dell’Europa, principale mercato di sbocco delle esportazioni del colosso asiatico; per quanto sempre alto, questo dato è in flessione, per esempio, rispetto al 9,2 per cento ottenuto nel 2009 all’apice della crisi finanziaria internazionale (nello stesso anno l’economia italiana si contraeva del 5,5 per cento). Nel complesso, l’espansione dell’economia mondiale si aggira intorno al 3,3 per l’anno in corso, due decimi di punto in meno di quanto previsto nella primavera scorsa.
    Ma non è stata la diatriba contabile sui due decimi di punto a scatenare la polemica tra il Fmi e gli europei giunti a Tokyo con una punta mal celata di ottimismo sulla scorta della recente decisione della Banca centrale europea circa l’introduzione del programma di acquisti di titoli di stato sul mercato secondario (il programma Outright monetary transactions, Omt). Nei lavori preparatori alla riunione della commissione ministeriale che si chiuderà nella giornata di oggi, il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, non ha usato eufemismi nel sottolineare che le previsioni di crescita assumono l’attuazione degli impegni ambiziosi che le autorità dell’Eurozona hanno preso nei mesi recenti. Il problema, tuttavia, è che proprio tale attuazione non viene affatto data per scontata dall’istituzione di Washington.

    Lo scontro da politico è diventato anche intellettuale quando è emerso che il World economic outlook, la prestigiosa pubblicazione dell’ufficio studi del Fmi, mette in discussione le ipotesi sulla base delle quali i paesi dell’Eurozona hanno imboccato la strada del consolidamento fiscale il cui impatto sulla crescita, ora, è sotto gli occhi di tutti.
    Nella pubblicazione viene notato, e corroborato, che vi è stato un grossolano errore di sottovalutazione negli effetti del consolidamento fiscale sulla crescita. Tipicamente, l’impatto di una manovra fiscale, il cosiddetto moltiplicatore fiscale, viene stimato attorno allo 0,5 nelle economie avanzate: in pratica, ogni punto percentuale di aggiustamento fiscale misurato rispetto al prodotto interno lordo “costa” mezzo punto dello stesso pil.

    Sulla base delle analisi econometriche messe a punto dai ricercatori del Fmi sulla scorta dell’evidenza più recente, l’effettivo moltiplicatore fiscale è molto più alto, attestandosi verosimilmente tra lo 0,9 e l’1,7: come a dire che, per ogni punto percentuale di aggiustamento fiscale, il “costo” in termini di pil può essere addirittura di 1,7 punti percentuali, oltre tre volte l’impatto convenzionalmente stimato. Il divario tra il valore, per prassi, attribuito al moltiplicatore fiscale nel corso degli ultimi trent’anni e quello effettivo all’opera negli ultimi anni, assai più alto, riflette le condizioni specifiche in cui i paesi dell’Eurozona hanno avviato l’attuale consolidamento fiscale: il contesto di partenza già altamente recessivo nelle loro rispettive economie, una politica monetaria con scarsi margini di efficacia dati i tassi di intervento prossimi allo zero e, infine, l’aggiustamento fiscale simultaneo fra i paesi dell’Eurozona.

    Eppure la velocità con cui le analisi econometriche del Fmi sono state riprese dai ministri non è indicatore della loro familiarità con l’econometria ma, piuttosto, della generale consapevolezza, al di fuori dell’Europa, che la via di uscita imboccata dall’Eurozona rischia di essere un vicolo cieco. Alcuni, fra i partecipanti alle riunioni di Tokyo, sottolineano che comporterà un decennio perduto con tutti i costi economici e umani che implica un aggiustamento del genere.
    Altri tendono a marcare il costo intergenerazionale della crisi: la condizione di recessione semipermanente che caratterizza molte economie europee e il conseguente aumento del tasso di disoccupazione strutturale, soprattutto giovanile, rischia di compromettere la qualità delle loro opportunità occupazionali nel lungo termine in assenza di radicali riforme del mercato del lavoro. Eppure, sono proprio i giovani coloro che dovranno accollarsi l’onere di ripagare il debito creato dalle generazioni precedenti.

    Sullo sfondo, una Lagarde che sta mostrando un buon senso tattico sfruttando con determinazione gli spazi politici apertisi tra i vari gruppi di paesi membri per ricalibrare un ruolo per il Fmi potenzialmente più assertivo nel teatro della crisi europea. La sfida che per lei si pone, ora, avendo imboccato questa strada, è quella di declinare tutte le conseguenze del caso, andando oltre le dichiarazioni di principio generiche o da pubblicazione specializzata.

    Per esempio, risulta indifendibile la posizione del Fmi sulla politica fiscale tedesca che gli alti funzionari hanno, invece, nuovamente ribadito “essere appropriata”, nonostante la Germania sia prossima al pareggio di bilancio, abbia un debito pubblico che, in rapporto al pil, è il più basso tra le quattro economie sistemiche dell’Eurozona e, al contempo, il tasso di crescita più elevato del gruppo. Analogamente, non è passato in sordina per gli osservatori extra-europei che il surplus nell’avanzo corrente della Germania ha superato quello della Cina, sia in termini assoluti che in rapporto al pil (5,4 per cento contro il 2,3). Così facendo, l’economia di Berlino continua a “sottrarre” domanda all’Europa a causa del suo eccesso di risparmio in un contesto, tuttavia, in cui maggiori esportazioni verso il mercato tedesco mitigherebbero gli effetti del consolidamento fiscale della periferia europea. Soprattutto se si considera che i costi in termini di crescita si sono rivelati, appunto, più alti di quanto inizialmente previsto.