La Festa dell'Unità, per esempio
Credo che sia per il fatto che ho quasi cinquant’anni (ne ho 49), che quando vado in giro mi vien da pensare le cose che vedo, e che sento, non andrebbero fatte e dette così come son fatte e son dette, andrebbero fatte e dette così come si facevano e si dicevano quando io ero giovane. Quest’estate, per esempio, sono stato al Campovolo, a Reggio Emilia, alla Festa nazionale dell’Unità, e ho pensato che la Festa dell’Unità, secondo me, non dovrebbero chiamarla Festa del Pd, perché si chiama Festa dell’Unità
Credo che sia per il fatto che ho quasi cinquant’anni (ne ho 49), che quando vado in giro mi vien da pensare le cose che vedo, e che sento, non andrebbero fatte e dette così come son fatte e son dette, andrebbero fatte e dette così come si facevano e si dicevano quando io ero giovane.
Quest’estate, per esempio, sono stato al Campovolo, a Reggio Emilia, alla Festa nazionale dell’Unità, e ho pensato che la Festa dell’Unità, secondo me, non dovrebbero chiamarla Festa del Pd, perché si chiama Festa dell’Unità; e le bandiere che ci sono alla Festa dell’Unità, non dovrebbero essere bandiere tricolori, dovrebbero essere bandiere rosse. E i cappellini e le bandiere che hanno quelli che ascoltano i comizi, non dovrebbero darglieli all’ultimo minuto quelli dello staff, dovrebbero portarseli loro da casa. E la canzone “Bandiera rossa”, non dovrebbe finire, come l’ho sentita cantata dai volontari in un ristorante della festa del Pd, con la strofa “Evviva il Pd e la libertà”, dovrebbe finire con la strofa “Evviva il comunismo, e la libertà” (mia mamma dice che la versione originale diceva: “Evviva il socialismo e la libertà”).
Forse sono io, che son così, forse sono io che son rimasto, nella mia testa, al 1966, alla Festa nazionale dell’Unità di Rimini dove non c’eran comizi, ma “stand gastronomici, mostra mercato del libro, ricco programma di musica leggera che prevedeva Giorgio Gaber, Johnny Dorelli, Don Powell, Gianni Morandi e la partecipazione del noto cantate sovietico Vladimiro” (come si legge nel bel saggio di Anna Tonelli, “Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità 1945-2011”).
E anche i comizi, non è che non mi piacciano i comizi, mi piacciono, però che si parli come dico io, che secondo me, come ho anche già scritto, io quando sento Bersani che comincia i suoi interventi dicendo: “Care democratiche, cari democratici”, io mi chiedo ma come si fa, dopo un inizio del genere, a dire qualcosa di sensato? Come si fa ad ascoltare qualcuno che inizia il suo discorso non dicendo “buongiorno”, non dicendo “benvenuti”, non dicendo “cari amici”, non dicendo “compagne e compagni”, non dicendo “signore e signori”, ma dicendo: “Care democratiche, cari democratici”?
Non si ascolta, secondo me non si ascolta, può dire quello che vuole, dopo, Bersani, non lo si ascolta, io non lo ascolto, infatti io scappo, e vado a cercare le cose che riconosco, negli angoli, nei ristoranti, le facce e i vestiti della gente che balla, e quelli che guardano, e i bambini che giocano ai giochi che facevamo una volta, che mi sembra che son sempre quelli, e a veder quelle cose mi viene in mente quel passo del libro “Cronosisma”, dello scrittore americano Kurt Vonnegut, quel passo che dice: “Mio zio Alex Vonnegut, un assicuratore che aveva studiato a Harvard e che abitava al 5033 di North Pennsylvania Street, mi insegnò una cosa molto importante. Disse che quando le cose vanno davvero bene dovremmo fare in modo di accorgercene. Non parlava di grandi trionfi bensì di semplici epifanie: bere una limonata all’ombra in un pomeriggio afoso, sentire il profumo di una panetteria vicina, pescare e fregarsene se si pesca qualcosa o no, ascoltare qualcuno che suona bene il piano nell’appartamento accanto al nostro. Zio Alex mi suggeriva, in tali occasioni, di dire a voce alta: ‘Se non è bello questo, cosa mai lo è?’”.
Ecco, non so se Kurt Vonnegut avrebbe mai voluto fare il funzionario del Pd, probabilmente no, peccato, perché in caso contrario lo avrebbero intervistato spesso, i nostri giornali.
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