Acciaio fuso
Le conseguenze a catena dello spegnimento all'Ilva
Con gli impianti dell’Ilva di Taranto rischia di spegnersi la filiera settore siderurgico italiano. E’ l’effetto economico della decisione della magistratura di accelerare, in contrasto con il governo, la chiusura degli altoforni di proprietà della famiglia Riva in Puglia perché fonte di inquinamento atmosferico a danno della salute dei cittadini. A novembre per ottemperare alle decisioni del giudice del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, un altoforno si avvierà verso lo spegnimento.
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Roma. Con gli impianti dell’Ilva di Taranto rischia di spegnersi la filiera settore siderurgico italiano. E’ l’effetto economico della decisione della magistratura di accelerare, in contrasto con il governo, la chiusura degli altoforni di proprietà della famiglia Riva in Puglia perché fonte di inquinamento atmosferico a danno della salute dei cittadini. A novembre per ottemperare alle decisioni del giudice del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, un altoforno si avvierà verso lo spegnimento. I funzionari del ministero dell’Ambiente hanno lavorato all’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), un piano di riconversione degli impianti per ridurre le emissioni. Secondo la proposta presentata ieri, si prevede una riduzione del 30 per cento della produzione. Cifra che si basa sulla capacità potenziale a pieno regime di 15 milioni di tonnellate l’anno che verrebbe dunque ridotta a 8 milioni (in realtà quanto già l’Ilva ha prodotto nel 2011). L’auspicio espresso dal ministro, Corrado Clini, ieri in conferenza stampa, è che serva a risolvere il conflitto tra azienda e procura.
La prospettiva di peggiore è che la famiglia Riva, il 21esimo produttore mondiale di acciaio, abbandoni il sito. “Con lo spegnimento l’Ilva sparirebbe dalle classifiche internazionali”, è la certezza dei tecnici del ministero dello Sviluppo.
“Lo scenario complessivo sarebbe disastroso” commenta al Foglio Antonio Gozzi, il presidente di Federacciai, l’associazione che riunisce i produttori italiani. Gozzi descrive un effetto a catena su tutta l’economia nazionale. Dal momento che l’Ilva l’anno scorso ha prodotto a Taranto 8 milioni di tonnellate di lamiere e nastri di cui 5 vengono vendute in Italia, 2,5 nell’Unione europea, e 0,5 nel mercato extra Ue, ci sarebbe un danno per tutta la filiera. Federacciai quantifica un aumento del 10 per cento dei costi per le aziende che utilizzano la materia lavorata (2,5 miliardi) in momenti di congiuntura negativa, come questo, e il doppio di extra costi in caso di una ripresa (5 miliardi). Ciò si ricava da quanto dovrebbero spendere le aziende clienti di Ilva per importare le tonnellate che verrebbero a mancare, visti l’aumento dei costi per il trasporto e lo stoccaggio: Ilva produce in base agli ordini mensili (metodo “just in time”), i produttori esteri invece ragionano a trimestri e sarebbe necessario stivare. L’effetto domino costerebbe allo stato circa 30 miliardi di euro l’anno come aggravio sulla bilancia commerciale perché non si esporterebbe più, aumenterebbero le importazioni di prodotti finiti e si azzererebbero di contro quelle di materie prime. I costi sociali, valutati da Federacciai, sarebbero di 450 milioni derivanti da una possibile cassa integrazione per i 15 mila dipendenti di Taranto e degli altri due stabilimenti Riva di Novi Ligure e Genova più i 15 mila dell’indotto (in media la siderurgia per 1 addetto impiega circa 0,6 indiretti). Valutando anche le mancate imposte da reddito dipendente il conto complessivo salirebbe a 600 milioni l’anno. “Sarebbe una castrofe per i conti pubblici”, commenta Gozzi, “una bastosta peggiore di una finanziariae causerebbe il collasso economico della Regione Puglia”.
Sono stime dell’Associazione dei produttori che descrivono un settore industriale in condizioni critiche che in termini di produzione totale è – per ora – secondo solo a quello tedesco. Altri casi sono considerati difficili. La società Lucchini, dopo l’uscita dall’azionariato dei russi di Severstal, è in mano alle banche creditrici. Situazione finanziaria che pesa sullo stabilimento di Piombino, il cui alto forno è a fine corsa e dovrebbe essere rifatto richiedendo degli investimenti per assicurare i 2.500 lavoratori. Allo stabilimento di Trieste (700 dipendenti) due altoforni vanno verso la chiusura e non potrebbero più fornire la ghisa liquida necessaria a mantenere attivo lo stabilimento triestino della Federtubi Jindal dove 200 operai producono tubi per acquedotti. Infine c’è Terni, un caso internazionale. L’Antitrust europea ha chiesto di ridurre le concentazioni europee nel mercato dell’acciaio inossidabile sotto il 45 per cento. Scelta controversa perché è un mercato in sovracapacità produttiva. Per questo la società finlandese Outokumpu vorrebbe cedere parte delle attività italiane. Martedì prossimo i vertici dello Sviluppo incontreranno la proprietà per cercare un accordo.
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