Lo strike di Israele all'Iran piomba nelle fiction, ma c'è un elemento di realtà

Paola Peduzzi

Israele ha attaccato cinque siti nucleari iraniani, un obiettivo non è stato completamente distrutto, le strutture erano troppo sotto terra, ci vogliono armi più potenti, i bunker-buster giusti, ma soltanto Washington può fornirle a Israele, e il presidente non vuole. “Tocca a me”, dice il vicepresidente, che inizia a far pressioni sul segretario alla Difesa. Intanto la piazza islamica brucia bandiere, israeliane e americane.

    Milano. Israele ha attaccato cinque siti nucleari iraniani, un obiettivo non è stato completamente distrutto, le strutture erano troppo sotto terra, ci vogliono armi più potenti, i bunker-buster giusti, ma soltanto Washington può fornirle a Israele, e il presidente non vuole. “Tocca a me”, dice il vicepresidente, che inizia a far pressioni sul segretario alla Difesa. Intanto la piazza islamica brucia bandiere, israeliane e americane, le ambasciate statunitensi in medio oriente sono sotto attacco, e da Beirut arriva un leak: ci sarà una rappresaglia, e sarà in territorio americano. Questo è l’inizio della seconda stagione di “Homeland”, la serie tv che appassiona il presidente americano, Barack Obama, e non solo lui, a giudicare dal bottino raccolto agli Emmy (è ispirata a una trasmissione israeliana, “Hatufim”, andata in onda nel 2010: raccontava il ritorno a casa, dopo 17 anni, di tre prigionieri di guerra israealiani catturati in Libano). La fiction si mischia alla realtà, il chiacchiericcio su un eventuale strike isreaeliano contro i siti nucleari degli ayatollah non si placa, anche se adesso la più parte dei commentatori s’è convinta che il premier di Gerusalemme, Benjamin Netanyahu, non voglia fare un affronto a Obama un mese prima delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, l’attacco può attendere. Ma il tempo stringe, si sta facendo tardi “molto tardi”, ha ripetuto Netanyahu. E se è vero che il timing dell’operazione iraniana dovrebbe tenere conto delle esigenze del principale alleato, l’America (e del fatto che pure all’interno di Israele la leadership è spaccata), in un attimo la situazione può precipitare. Prendiamo il drone abbattuto da Israele, sabato mattina. Un ex portavoce di Tsahal, il parlamentare Miri Regev, ha twittato: “E’ un drone iraniano lanciato da Hezbollah”. La versione non è stata confermata, l’esercito ha soltanto mostrato un video di dieci secondi, il momento dell’intercettazione da parte di Israele, un piccolo aereo che viene colpito da un missile sparato da un jet da combattimento. Il drone è stato distrutto, ma sulla sua partenza e sulla sua destinazione ancora si deve fare chiarezza. Si dice che fosse diretto a Dimona, dove è situato il reattore nucleare di Israele: l’intercettazione è avvenuta sul cielo sopra la Striscia di Gaza, quella stessa terra governata da Hamas da cui ieri sono partiti almeno cinquanta missili contro il territorio israeliano. La motivazione dei missili è quasi più paurosa di tutto il resto, oltre la fiction e oltre la realtà: i missili vengono sparati per reazione all’uccisione da parte di Israele di un leader salafita a Gaza. La cosiddetta lotta di Hamas ai vari gruppi di al Qaida che hanno trovato sistemazione nella Striscia è finita in un’utile collaborazione.

    Nel giro di pochi giorni vola un drone sui cieli di Israele (gli esperti dicono che già in passato velivoli di Hezbollah avevano sconfinato dal Libano, ma mai si erano avventurati così in là) e ricomincia la pioggia di missili da Gaza. La “tenaglia” non è una novità, nelle dinamiche di scontro con Israele, ma ora c’è anche la crisi siriana – la Turchia continua a rispondere col fuoco al fuoco dell’esercito di Damasco; l’America ha sospeso l’invio di soldi ai ribelli, mandando nel panico diplomatici e intelligence sul campo – e c’è ovviamente lo strike israeliano all’Iran. Teheran gioisce per il drone che ha mostrato “la vulnerabilità di Israele” (è una delle poche gioie che ha, il resto è popolo imbizzarrito ed economia collassata) e il gabinetto di guerra di Gerusalemme si riunisce. E’ davvero improbabile che Israele lanci un attacco ora, soltanto per non fare uno sgarbo all’alleato (antipatico) Obama? Il magazine Newsweek in edicola oggi ha organizzato una finta riunione del “Principals Committee”, il team che il presidente americano riunisce per avere consigli su questioni di massima importante. La questione, il “war game” da cui si parte, molta war e poco game, è la stessa di “Homeland”: Israele ha attaccato l’Iran appena prima delle elezioni (è così che funziona l’effetto sorpresa, nella realtà), che fare? Gli invitati di Newsweek sono personaggi influenti nel mondo della politica estera e non, John Podesta interpreta il chief of staff (lo faceva veramente per Bill Clinton), Thomas Pickering è il segretario di stato (è stato ambasciatore in Israele e in Russia) e poi ci sono ex della Cia, ex del dipartimento della Difesa. Tutti spingono per una “de-escalation”, calmare le acque, ma litigano su come trattare Israele che ha fatto una sorpresa di così cattivo gusto. E c’è un effetto-inevitabilità: se l’Iran reagisce contro Israele o, peggio, contro l’America, non si può evitare una guerra. In “Homeland” tutto accade a Beirut.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi