La resurrezione della carta
Come racconta Ken Auletta sul New Yorker, la carta stampata non è affatto morta e neppure moribonda. La preghiera dell’uomo moderno si è solo spostata – non sappiamo per quanto – in un nuovo santuario. Un Eldorado dove si sente il profumo della carta e le mani si macchiano ancora d’inchiostro, un luogo in cui chi legge è ancora guardato con un misto di ammirazione e soggezione e un mostro a sei teste chiamato Internet non ha ancora falciato profitti e cannibalizzato redazioni.
Come racconta Ken Auletta sul New Yorker, la carta stampata non è affatto morta e neppure moribonda. La preghiera dell’uomo moderno si è solo spostata – non sappiamo per quanto – in un nuovo santuario. Un Eldorado dove si sente il profumo della carta e le mani si macchiano ancora d’inchiostro, un luogo in cui chi legge è ancora guardato con un misto di ammirazione e soggezione e un mostro a sei teste chiamato Internet non ha ancora falciato profitti e cannibalizzato redazioni. La terra promessa evocata nell’imperdibile “Citizen Jain” di Auletta è l’India, un paese con una popolazione di 1,2 miliardi di persone di cui però solo 55,5 milioni hanno accesso alla rete, in cui ci sono 376 milioni di abbonati alla telefonia mobile, ma di questi solo il 15-20 per cento ha un apparecchio che può andare on line. Trecento milioni di persone che rappresentano la nuova borghesia indiana e che hanno voglia di tenere un giornale in mano perché come sottolinea M. J. Akbar, direttore di Asian Age, “i quotidiani rappresentano e parlano la lingua delle aspirazioni”. Il quotidiano più letto al mondo è Dainik Jagran ed è indiano. I quotidiani in India costano poche rupie, l’equivalente di 5 o 10 cent di dollaro. La consegna a domicilio se la sobbarcano gli editori e il prezzo di una copia scende ancora se si considera che la carta dei giornali viene conservata dai lettori, ritirata ogni mese e rivenduta alle cartiere per essere riciclata. Secondo un’analisi congiunta di Kpmg e della Federation of Indian Chambers of Commerce il valore della stampa come industria in India è cresciuto di due terzi negli ultimi sei anni. Degli 80 mila quotidiani del subcontinente, l’85 per cento è pubblicato in una delle venti lingue ufficiali indiane. Se la diffusione dei giornali indiani in inglese cresce del 4,5 per cento all’anno, quella dei giornali in hindi, punjabi, telugu, tamil, marathi aumenta tre volte tanto. Tuttavia, siccome l’inglese è la lingua che attrae una fascia di lettori (e di consumatori) più sofisticata, sono i quotidiani in inglese ad attrarre il 70 per cento della pubblicità. E quanto la pubblicità sia legata alle magnifiche sorti e progressive della stampa in India è illustrato da Auletta nel suo formidabile ritratto dei fratelli Jain, i demiurghi del quarto potere indiano.
Samir e Vineet Jain dirigono un impero chiamato Bennett Coleman & Company Ltd. Un colosso mediatico che dà lavoro a 7.000 persone e conta cinque quotidiani tra cui il Times of India e l’Economic Times, due dei più importanti del paese con una diffusione di 4,3 milioni di copie al giorno (ma si calcola che i lettori del solo Times of India siano almeno 13,3 milioni), 31 riviste, 32 stazioni radiofoniche, due canali televisivi all news e un canale di lifestyle. Il volto dell’impero è un po’ Bollywood, un po’ Fox News. I Jain detestano il giornalismo spocchioso. Il Times of India (ToI) non è elitario. Gli articoli sono brevi, i titoli accattivanti. Sulla prima pagina possono esserci fino a dieci storie, con i principali eventi nazionali e internazionali spesso commentati in tanti piccoli box perché secondo i Jain solo il 3 per cento dei lettori arriva alla pagina degli editoriali. Il tono è lieve: sul ToI il bicchiere è tendenzialmente mezzo pieno, piuttosto che vuoto. C’è poco sangue, poca morte (con Samir Jain l’argomento è tabù) molto colore, giocatori di polo e di cricket, star e starlette indiane e internazionali.
Del resto, come sottolinea il presidente di Walt Disney Andy Bird, “lo spettacolo è parte della psiche indiana” (e la Disney considera l’India una pietra angolare della sua strategia di sviluppo internazionale). Il 93 per cento degli indiani interpellati da un recente sondaggio di Millward Brown ha risposto in modo affermativo alla domanda “Amate l’intrattenimento?”, una percentuale decisamente più alta del 79 per cento di cinesi e americani. ToI conosce i gusti degli indiani. “Le 5 D, death, decay, destruction, disaster, disease (morte, decadenza, distruzione, disastro, malattia), sono materiali per storie che vincono premi, ma le storie dure sono inversamente proporzionali alla pubblicità”, ha detto Samir Jain a Forbes. C’è spesso un che di irriverente tra le pagine di ToI, mai troppo però: la stampa in India è meno aggressiva di quella occidentale. E nel malaugurato caso di incidente ferroviario o tsunami, la corazzata dei Jain non si tira indietro, ma preferisce focalizzare l’attenzione sulle storie esemplari di salvatori e sopravvissuti. La povertà è pressoché bandita e la politica resta sullo sfondo. I Jain ostentano indifferenza verso la politica e nemmeno un invito a cena con Barack Obama è riuscito a piegare la loro ritrosia.
L’aspetto più interessante dell’ethos di Samir e Vineet Jain è il candore, alcuni lo chiamano cinismo, con cui spiegano il loro lavoro : “Noi non siamo nel business dei giornali – dice Vineet Jain – ma in quello della pubblicità”. Nessuno deve posare come cane da guardia della società a ToI. Quello dei Jain è “un business derivato”, sicché, per la proprietà transitiva, se sorridono gli investitori sorridono anche loro. Una filosofia che li ha condotti ad adottare strategie di vendita che i rivali aborrono finché non corrono a copiarle. Si sono inventati Medianet, un gruppo nel gruppo, per indurre celebrità e brand a pagare ToI per le notizie scritte su di loro e hanno convinto più di 350 società a offrire loro capitale azionario in cambio di pubblicità. Anche la strategia di marketing è aggressiva: una volta alla settimana dimezzano il prezzo del giornale, altre volte introducono un prezzo ribassato in alcune località per aumentare la diffusione.
Molti critici rimproverano ai fratelli Jain di essere all’origine di un’epidemia che ha corrotto il giornalismo indiano. Auletta racconta che quando il giornalista Naresh Fernandes si spostò dal Wall Street Journal al Times of India ammonendo i suoi redattori che “un virgolettato è esattamente quello che la persona ha detto nel modo in cui lo ha detto”, fu accusato di voler imporre standard americani al giornale. Otto mesi più tardi Fernandes rassegnò le dimissioni. Shekhar Gupta dell’Indian Express sostiene che Samir Jain sia “la mente più acuta e creativa nei media”, ma anche che il nodo del problema è nell’idea che “si possano organizzare dei focus group per capire cosa vorrebbe leggere la gente e poi costruire i contenuti su quelle basi”. Eppure, anche un critico feroce come Krishna Prasad di Outlook concede una nota positiva : “ToI – dice – tra i giornali indiani è sicuramente il meno ideologico”.
Ma il Times of India continuerà a fare proseliti o è solo un fuoco di paglia? Persino Bollywood di questi tempi è incalzata da un cinema indipendente che rifugge dai canti e dai balli, un cinema alternativo che parla più alla classe media urbana che alle grandi masse rurali. E quanto tempo ci vorrà perché Internet trasformi le regole del gioco? Vineet Jain è convinto che la minaccia della rete non sia imminente e che i giornali continueranno a crescere per altri 15 anni, ma c’è chi pensa che i due media moghul sottovalutino deliberatamente il rischio per non spaventare gli inserzionisti.
L’India comunque non è l’ultimo paradiso dei giornali. La Cina la segue tra le nazioni al vertice nella lettura dei quotidiani e Brasile, Sudafrica e Russia offrono ancora dati incoraggianti di vendita, tanto che c’è da chiedersi se dietro il miracolo della stampa indiana (e al netto delle differenze culturali e dell’assenza-presenza di libertà) non ci sia piuttosto una condizione favorevole – crescita della classe media e del suo potere d’acquisto, aumento dell’alfabetizzazione, ritardi della penetrazione di Internet – comune a tutti i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
Una generazione fa in Cina c’era un unico giornale degno di nota, il People’s Daily del Partito comunista. E’ ancora pubblicato e non è cambiato molto negli anni. Nel frattempo migliaia di quotidiani e riviste si sono affacciati sul mercato con contenuti diversi. Anche se tutti continuano a essere soggetti alla censura e in teoria all’organo di controllo della propaganda del Partito comunista. Il fenomeno più innovativo tuttavia è un altro: la free press distribuita nei metrò, come Otto in punto, comparso a Shenzhen nel 2011. Otto in punto non cerca breaking news, né insegue le notizie che fanno i titoli di prima pagina negli altri giornali. Offre un mix di articoli brevi sulle celebrità e le star dello sport con occasionali incursioni nello scandalo del momento. Il segreto del suo successo è lo stesso di ToI: Otto in punto conosce i suoi lettori. Come la maggior parte dei giornali gratuiti in Cina è letto soprattutto da impiegati sotto i quarant’anni che gettano un’occhiata veloce e assonnata alle pagine. L’ultima cosa che desiderano è un articolo impegnato e Otto in punto li accontenta. Almeno metà di ogni pagina è occupata da una foto o da una pubblicità. Otto in punto si percepisce senza vergogna come un mezzo per generare profitto: ha sposato insomma la filosofia dei fratelli Jain. La missione è fare in modo che chi legge i titoli in alto scenda in basso con gli occhi verso gli spazi venduti agli inserzionisti. Sono loro – case automobilistiche, immobiliaristi, grandi magazzini, conglomerati alimentari, i protagonisti della crescita cinese – il pensiero fisso dei redattori di Otto in punto e non certo i lettori. Del resto nessuno si sconvolge, i cinesi che convivono con la censura e i quotidiani di regime non sono imbevuti di ideali romantici riguardo al ruolo della stampa. Pechino, Shanghai, Shenyang e Guangzhou hanno tutte la loro free press metropolitana che ovunque miete successi. La Cina è il luogo ideale per questo tipo di giornali. A Shenzhen, Shanghai e Pechino la borghesia si ingrossa e il tasso di immigrazione dai piccoli centri verso le megalopoli sale. Ci sono 14 linee del metrò a Pechino, 11 a Shanghai, cinque a Shenzhen con altre due in dirittura d’arrivo. E pare naturale che più s’allarga la rete metropolitana, più crescano i profitti dei vari Otto in punto cinesi. Naturalmente non senza contraddizioni. Secondo il professor David Bandurski dell’Università di Hong Kong la combinazione di evoluzione sociale, maggior raffinatezza dei lettori e crescita della pubblicità, unite al bisogno di riconciliare la credibilità con i controlli della censura, crea un clima ambiguo in cui si danza continuamente tra le linee guida del regime e le velleità dei giornali.
Il caso sudafricano è interessante. La fine dell’apartheid ha determinato da un lato il declino dei quotidiani tradizionali rivolti a un pubblico bianco, colto e tendenzialmente abbiente che ora cerca le notizie sul Web; dall’altro, il boom di giornali nuovi, pensati per una readership nera e working class. Nelle township il tenore di vita si è alzato, per molti sono arrivate case decenti, elettricità, acqua corrente, un lavoro e un salario minimo. Una comunità di nuovi lettori è nata e non ha preso in mano i vecchi giornali. Sono arrivati i tabloid. “Con l’apartheid la gente di colore non era interessata a leggere notizie di una società di cui non poteva far parte”, spiega Eric Dunn del Sunday Tribune. “Ora tutto è cambiato. La maggioranza nera è libera e alfabetizzata, vuole votare e avere accesso ai media, finalmente non c’è più censura”. Si è aperto un mercato inesplorato. “La nostra ricerca – dice Steve Pack, direttore finanziario del gruppo che controlla il Daily Sun – dimostra che la maggior parte dei nostri lettori non aveva mai comprato un giornale prima che il nostro fosse pubblicato”. La stampa popolare sudafricana si ispira al modello britannico con una spruzzata di folclore originario. Il menu del tabloid è costruito intorno alle tre S: sesso, sensazione e sangomas (la parola che indica il guaritore della medicina tradizionale africana). Non mancano mai le notizie locali e un potpourri di news nazionali e internazionali (il minimo sindacale), non mancano soprattutto le virate trash con storie al limite dell’immaginazione: squali “razzisti” che divorano solo nuotatori bianchi, alberi magici con foglie miracolose per la virilità maschile, donne che denunciano stupri da parte di un gorilla e mariti che rapiscono stregoni colpevoli di averne insidiato le mogli. Il Daily Sun ha fatto scuola ispirando la creazione di molti altri tabloid e persino il serioso Sowetan, voce della maggioranza oppressa durante l’apartheid, ha dovuto aggiustare il tiro. Secondo Dunn, “gli intrighi di palazzo non appassionano il nuovo esercito di lettori sudafricani che da un lato cercano l’evasione e dall’altro sono attenti ai problemi della comunità – infrastrutture carenti, stato delle scuole e degli ospedali”. E così anche i giornali più seri devono inseguire i tabloid e i loro racconti di disfatta, rivalsa sociale e crimine che provengono dalle township. “ I giovani sudafricani che hanno scoperto la democrazia sono più interessati a trovare un lavoro, una macchina e vestiti di marca che alla politica razziale che ha definito le vite della generazione precedente”, spiega Dunn.
Anche in Brasile la stampa è tutt’altro che defunta. Il numero dei quotidiani è cresciuto di un terzo dal 2001, il totale oggi è di circa 700 pubblicazioni. Tra i fattori che trascinano le vendite, anche in questo caso l’emergere di un nuovo blocco di lettori, la nuova classe media che guadagna tra i 600 e i 2.700 dollari al mese e rappresenta la metà della popolazione brasiliana. Anche i nuovi lettori brasiliani scelgono i tabloid, un mix di crimine, spettacolo, scandali e ragazze in bikini. Emblematico di questa tendenza il successo di Super Notícias fondato nel 2002 a Belo Horizonte, la terza città del Brasile. Con foto ammiccanti, concorsi a premi e un prezzo all’edicola di 15 cent americani all’incirca, Super Notícias è arrivato a vendere 290 mila copie ed è sul podio tra i giornali brasiliani più venduti. Tre dei dieci maggiori giornali brasiliani in termini di diffusione sono tabloid, una categoria pressoché inesistente fino a otto anni fa. Nel frattempo, per recuperare copie e corteggiare i nuovi lettori, anche i quotidiani tradizionali sono partiti alla rincorsa dei tabloid. L’apripista in questo caso è stato Infoglobo, il colosso dei media che pubblica O Globo, il giornale più importante di Rio de Janeiro. Nel 1998 Infoglobo ha lanciato Extra, un tabloid in vendita a 65 cent americani contro gli 1,15 dollari per O Globo. Mentre la diffusione di O Globo si contrae, la crescita di Extra limita i danni. Extra e O Globo sono rispettivamente il terzo e il quarto giornale brasiliano. Anche in Brasile l’accesso a Internet è relativamente modesto. Mentre il 77 per cento degli americani si collega quotidianamente al Web, in Brasile la percentuale è del 32 per cento. Dati che sono destinati a cambiare a mano a mano che i brasiliani potranno permettersi di comprare computer e accedere alla banda larga. Intanto, come in India, i pubblicitari preferiscono investire nella carta stampata. Ma è proprio in questo campo che il Web sta iniziando a erodere i profitti. Nel 2010 la percentuale di investimenti pubblicitari sulla stampa cartacea è scesa dal 16,6 per cento al 13,4 per cento. “Sappiamo che probabilmente alla fine si determinerà in Brasile la stessa migrazione di lettori dalla carta stampata al Web” ammette Ricardo Pedreira, direttore della Associação Nacional de Jornais, l’associazione nazionale della stampa brasiliana. Eppure Pedreira resta ottimista quanto i fratelli Jain. “In Brasile la diffusione dei giornali è ancora molto bassa e siamo convinti che la carta stampata abbia ancora grandi margini di crescita”. Non si sa per quanto ma Citizen Kane pare essersi trasferito nei Brics.
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