Ci conosciamo tutti
Ci si può accontentare di quel che Monti e i suoi hanno avuto da offrirci. Serietà, dedizione ai dossier, un tasso di vanità contenuto, ironia senza troppe pretese, una presenza non indecente, tutt’altro, sulla scena europea e mondiale, lunghi Consigli dei ministri, relativa trasparenza nell’informazione, rare smentite al contrario di quanto avveniva sub Berlusconi, no bisticci ideologici degradanti come succedeva sub Prodi, mitezza e tratto istituzionale a spegnere le velleità girotondine e giacobine.
Ci si può accontentare di quel che Monti e i suoi hanno avuto da offrirci. Serietà, dedizione ai dossier, un tasso di vanità contenuto, ironia senza troppe pretese, una presenza non indecente, tutt’altro, sulla scena europea e mondiale, lunghi Consigli dei ministri, relativa trasparenza nell’informazione, rare smentite al contrario di quanto avveniva sub Berlusconi, no bisticci ideologici degradanti come succedeva sub Prodi, mitezza e tratto istituzionale a spegnere le velleità girotondine e giacobine, no moralismi e facilonerie demagogiche, senso della continuità dello stato e dello stato in sé, vacanze in Engadina, atmosfera familiare non troppo impegnativa, misure infine di taglio della spesa pubblica e di taglio delle imposte sul reddito, un campioncino modesto magari, ma interessante e cruciale per un paese tanto degradato, della rivoluzione liberale impossibile, almeno secondo le quantità e le qualità invocate da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nel Corriere di ieri.
Non è questione di essere rassegnati o troppo cautamente realisti. Non è questione di risposte ovvie. I tecnici non hanno sufficiente legittimazione per fare la rivoluzione. Possono governare anche in forma semicommissaria, in regime di sospensione delle ordinarie garanzie elettorali e di cittadinanza, ma per realizzare in un lasso di tempo predeterminato scopi condivisi di una comunità che abiti una situazione di emergenza di cui non riesca a venire a capo altrimenti: la radicale scomposizione degli interessi, una riclassificazione sociologica e antropologica delle figure sociali dominanti, un ricambio di cultura e di comportamenti – insomma la rivoluzione liberale – non sono cose nell’orizzonte di una tecnocrazia che usa le leve esistenti dello stato e non si cura direttamente del consenso popolare ma dipende pur sempre da quello parlamentare, per quanto illuminata e brillante possa essere.
Gli harvardiani del Corriere non hanno praticamente difetti. Le loro agende riformatrici sono perfette. Lo stile di scrittura è invidiabilmente chiaro e semplice. I dati inoppugnabili. Anche chi porti rispetto per le ideologie sopravvissute al crollo del Novecento e dei suoi miti collettivisti, industrialisti, socialisti, anche per chi diffidi del pensiero troppo levigato e misurato, le ragioni di Giavazzi & Co. sono irresistibili. Manca loro l’esprit de finesse, la comprensione (anche polemica, anche giansenistica) per l’irriducibilità di certe passioni, o vizi, come l’attitudine alla vita protetta, lo scetticismo verso il potere pubblico e l’intraprendenza privata, l’individualismo senza Dio e con il prete che ti assolve, una certa bonarietà che sconfina volentieri nella pigrizia e che non si sposa con principi di responsabilità e libertà delle rivoluzioni. Ci conosciamo tutti.
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