“Adesso!”. “E adesso?”

Stefano Di Michele

Dice Renzi: “Adesso!”. Mormora Alfano: “E adesso?”. Vorrebbe, Angelino, fortemente vorrebbe – gli si intravede in certi lampi di esasperazione che attraversano il suo sguardo da mite cerbiatto di Girgenti imprigionato nello zoo parco del pidielle,  nel mesto sfogliare quotidiano del Giornale che lo sbeffeggia, nel giornaliero riattrupparsi dei Cicchitto e dei Gasparri, nel sali e scendi per le antiche scale di Palazzo Grazioli.

    Dice Renzi: “Adesso!”. Mormora Alfano: “E adesso?”. Vorrebbe, Angelino, fortemente vorrebbe – gli si intravede in certi lampi di esasperazione che attraversano il suo sguardo da mite cerbiatto di Girgenti imprigionato nello zoo parco del pidielle,  nel mesto sfogliare quotidiano del Giornale che lo sbeffeggia, nel giornaliero riattrupparsi dei Cicchitto e dei Gasparri, nel sali e scendi per le antiche scale di Palazzo Grazioli. E lassù in alto, sempre grandioso seppur con tratti sempre più museali, un Cav.-Sfinge, un Cav.-Tormento, un Cav.-Scrivano Bartleby che un giorno “preferirei di no” e il giorno appresso “preferirei di sì”. C’è un Renzi che dorme in Alfano, che vorrebbe forse inforcare anche lui un camper, un tramvai, un bimotore – meglio ancora una ruggente locomotiva, come quella musicalmente amatissima di Guccini, la locomotiva anarchica caricata a bomba che “ruggendo si lasciava dietro distanze che sembravano infinite”. Ruggisce dentro di sé, probabilmente, Angelino, ma non riesce a lasciarsi dietro alcuna distanza – né limitata né tantomeno infinita. E’ pazienza da criceto sulla ruota, la sua; è Penelope al telaio il suo operare – né Ulisse s’affaccia all’orizzonte, manco Argo fa feste, certi giorni, si sa, “neanche un prete per chiacchierar”. Matteo e Angelino sono quasi coetanei, entrambi spinti sul proscenio del partito dallo spavento dell’estinzione dello stesso.

    Ma Matteo gode di una fortuna che Angelino non può permettersi: i nemici, la saggezza del nemico. Di veri nemici, come D’Alema, come Veltroni, come lo stesso Bersani. Perché per innalzarsi nella contesa, e nell’immaginario della folla, lo scontro deve apparire realmente pericoloso, il nemico efficiente, il sangue dello sconfitto correre copioso. Onestamente, difficile assumere la posizione gladiatoria di un Massimo Decimo Meridio o di uno Spartacus avendo come unica tenzone da animare quella contro Nicole Minetti – che peraltro, a ultimatum ribadito, fa spallucce, indossa il bikini e sfila in passerella. I nemici di Angelino sono, potenzialmente, più di quelli di Matteo, ma la sua condizione di capo del partito – pur così in fase di squagliamento, da partito che si voleva leggero e liquido a partito liquefatto, e non a caso quelli di sinistra ormai neanche lo citano più il pidielle, tutti concentrati a dir male tra di loro e a denti stretti a dir bene di Monti, lasciando l’incombenza ai giornali amici o agli stessi dirigenti berlusconiani – gli lega le mani e gli chiude la gola. I nemici sono essenziali – senza, nessuna battaglia ha sapore di verità o almeno di essenzialità. Il rottamator scortese fiorentino l’ha capito così bene che dà l’impressione di macinare più chilometri per far uscire i suoi odiatori (odiatori a ragion veduta, s’intende) nell’arena che per sollecitare i consensi sugli spalti – anche se questi poi puntualmente arrivano, proprio perché sul campo si combatte vera guerra (così che persino il livornese Vernacoliere in edicola titola e omaggia a tutta pagina: “Pipiritto contro Pallemosce” – inteso, quali seconde, il leader Bersani accas(ci)ato presso la pompa di benzina di famiglia), e le ferite buttano vero e zampillante sangue (politico), non succo di pomodoro di sceneggiatura approntata.

    Se dietro di sé, autogrill dopo autogrill, da casello a casello, Renzi riesce a lasciare un giorno lo scalpo di Veltroni (che intelligentemente lo ha consegnato prima a Fazio, piuttosto che farselo portar via dallo scuoiatore dell’Arno) e il giorno dopo quello di D’Alema, addirittura costringendo al colpo (definitivo?) l’avversario Bersani, “non chiedo a D’Alema di ricandidarsi”, vuol dire che ce l’ha fatta a far soffiare tutto il vento possibile (pur vento di peti e di rutti, secondo i suoi nemici nel Pd) nelle vele del camper. E quel rimettersi di ognuno, un po’ furbescamente, ora pare di capire piuttosto inutilmente, alla volontà del partito – se me lo chiede il partito: così il rischioso azzardo di D’Alema, così la Finocchiaro, così la Bindi, così Marini – o il puntare i piedi con stizza e resistenza che s’intuisce inutile – me ne vado se vanno via anche gli altri, così la Turco – ha l’aria di una patetica  avvocatesca remissione alla clemenza della corte: clemenza che in meno di niente al boia politico ti consegna. E toccherà a Bersani, che magari avrebbe gradito farlo, e che forse, come assicura, si preparava a fare, procedere alla cavatura di quasi tutta l’antica, onorata dentatura piddina: ma ora pare, e sicuro i giornali in tal modo procederanno a presentare la questione, sotto renziana dettatura. Come l’inabissarsi di tutta un’epoca, sarà, come se uno vedesse, pezzetto dopo pezzetto, venir giù i luccicanti mosaici ravennati che raffigurano le antiche coppie imperiali – non un procedere per disuso, quanto un lavoro improvviso di scalpello. Ma paradossalmente, proprio “il sugo della vita” che scorre a sinistra certifica lo scontro ma in qualche modo anche una buona vitalità: c’è contesa vera, perciò c’è vera vita. Tutta salute.

    Angelino non può – pur se Angelino sa che questo sarebbe necessario fare. E magari è il suo essere dc agrigentino, prima e più che il solito destino cinico e baro, ad averlo spintonato dentro una situazione perfettamente pirandelliana: dove niente è al suo posto, dove ognuno è il contrario di quel che dovrebbe essere. L’uomo che si sdegna e si ripropone, lassù in cima allo scalone di Palazzo Grazioli, ha il quarto di nobiltà del rottamatore antemarcia, di colui che vent’anni fa come ruspa liberale passò a rimuovere le macerie della più fantomatica (fino a oggi) rottamazione della storia italica. Un po’ di macerie portò in discarica, un po’ nel nascente partito – ma insomma, rottamazione fu. E oggi non pochi dei suoi, annaspanti nell’asfittico pidielle, rottamare vorrebbero (solo un venticello, ancora, ma a farsi maestrale poco ci vuole: quel poco che separa la possibilità di una sopravvivenza da una definitiva dipartita) l’antico, primario rottamatore. Ma ecco – è il Cav. (il lucente mosaico che resiste: è infatti come Giustiniano, che lì in effigie risplende, nei dì di festa si presentò) che sente prudere le chiappe pronto a riposizionarle alla guida della vecchia ruspa, e a spazzar le macerie pidielle dalle quali salgono sempre più flebili rumori di vita, così da farsi nuovo e splendente partito. E Angelino – che avrebbe la vocazione, lui, a rottamator cortese, ma rottamatore sempre – da segretario è costretto a sopire e a troncare, il petto in fuori a sposar di malavoglia la causa persa dei sopravvissuti: ché tutti a suo carico li intesta la voglia matta del Cav., resistente con tenacia e decadente splendore  da ultimo Bue primigenio nella fu rigogliosa pianura berlusconiana, ormai dai margini sempre consumati dall’avanzare delle paludi. E’ in questo paradosso pirandelliano che il dramma di Angelino si consuma:  ha troppi nemici, ma nessun nemico può proclamare: di nessuno chiedere lo scalpo, di nessuno abbandonare la sorte – tranne la povera Nicole. E ruggisce inoffensiva, fuori dai binari, la sua detonante locomotiva per eroi giovani e belli.