Un libro spiega perché D'Alema è diventato il vero bersaglio dei rottamatori

Claudio Cerasa

Che poi uno ci pensa e si chiede: ma perché proprio lui? Cioè, perché proprio Massimo D’Alema? E perché è proprio l’ex presidente del Consiglio (la cui sagoma tra l’altro ieri è stata clamorosamente fotografata sotto il camper del sindaco di Firenze) a essere diventato il simbolo della famosa rottamazione renziana?

    Che poi uno ci pensa e si chiede: ma perché proprio lui? Cioè, perché proprio Massimo D’Alema? E perché è proprio l’ex presidente del Consiglio (la cui sagoma tra l’altro ieri è stata clamorosamente fotografata sotto il camper del sindaco di Firenze) a essere diventato il simbolo della famosa rottamazione renziana? La prima risposta che viene in mente è quella più pigra ed è la classica risposta che spesso ti offrono i renziani: D’Alema (che ieri sera a Otto e 1/2 da Lilli Gruber ha detto che se dovesse Bersani vincere le primarie non chiederà deroghe e non si ricandiderà in Parlamento) è uno dei tanti big che da troppo tempo si trovano ai vertici della sinistra italiana e non avendo concluso granché in tutti questi anni pur avendo raggiunto una vera posizione di comando nel paese merita di andare subito a casa per lasciare spazio in Parlamento, e non solo lì, alle scalpitanti nuove generazioni di democratici.

    A prima vista dunque c’è questo, e non è escluso che tra i rottamatori ci sia chi consideri queste motivazioni già di per sé sufficienti a guardare con perplessità (eufemismo) il presidente del Copasir e tutta la sua generazione. Ma a voler osservare con più attenzione quello che è forse il vero senso politico della rottamazione bisogna fare un piccolo sforzo e bisogna capire che il bullismo generazionale, se così si può dire, non è il sale della sfida renziana e non è l’unico elemento che si trova alla base della dialettica tra la generazione rappresentata da Matteo Renzi e quella rappresentata da D’Alema. La sfida è generazionale, sì, ma non è legata solo alla questione “tu sei più vecchio di me e devi lasciare campo libero a chi è più giovane come me”, ma è collegata a quello che è il vero nodo centrale della battaglia tra le due sinistre e tra i due Pd rappresentati dal sindaco di Firenze e dalla coppia Bersani-D’Alema.

    Il senso di questo duello lo spiega bene Antonio Funiciello, direttore di LibertàEguale, in un gustoso saggio uscito pochi giorni fa per Donzelli (“A vita. Come e perché nel Partito democratico i figli non riescono a uccidere i padri”). Funiciello, per decodificare il significato più profondo della rottamazione renziana e per spiegare perché al centro della sfida di Renzi c’è proprio D’Alema, parte da una data che accomuna il sindaco di Firenze e l’ex presidente del Consiglio: il 1975. Il 1975 è l’anno di nascita di Renzi ed è anche l’anno di nascita di una generazione di italiani piuttosto significativa (i primi cioè che essendo diventati maggiorenni nel 1993 sono arrivati alle elezioni senza aver mai trovato nell’urna elettorale il simbolo di nessun partito della Prima repubblica). Ma dall’altra parte il 1975 è una data importante anche per la generazione di D’Alema. Fu in quell’anno infatti che D’Alema venne scelto da Enrico Berlinguer per guidare i giovani comunisti italiani (elezione il 21 dicembre del 1975) e fu in quell’anno che l’ex segretario del Pci affidò al futuro presidente del Consiglio un compito importante: rinnovare i quadri dirigenti del partito e immettere nel Pci personale politico in sintonia con la strategia del compromesso storico.

    Il compromesso, già. Secondo Funiciello, il peccato originale del centrosinistra è legato proprio a questa fase storica dalla quale gli attuali dirigenti del Pd faticano ad allontanarsi, e la sfida tra i due Pd che oggi si trovano in campo in vista delle primarie, secondo il saggista, in qualche modo parte proprio da qui. Parte proprio cioè dallo scontro tra due mondi diversi. Tra chi, come D’Alema, ha creato e formato una classe dirigente che ha attraversato tutti i vari partiti del centrosinistra sempre con l’idea di riproporre la strategia togliattiana e poi berlingueriana del necessario incontro tra post-comunisti e post-democristiani (concetto sintetizzato perfettamente dal famoso “patto tra moderati e progressisti” a cui fanno continuamente riferimento D’Alema e Bersani). E tra chi come Renzi sogna di andare oltre la generazione del compromesso e di costruire un centrosinistra senza trattino, e cioè un soggetto nuovo che rifiuti e rinneghi la divisione del lavoro tra centro e sinistra e che combatta l’idea che debbano essere due forze distinte a riorganizzare il campo dei progressisti e quello dei moderati.

    “Oggi il Pd – sostiene Funiciello – è di fatto gestito sulla base di un patto di sindacato al vertice tra un gruppetto di eredi del centro berlingueriano del Pci e azionisti di minoranza della sinistra democristiana. E a mio avviso poi una delle ragioni per cui fino a oggi i padri e gli azionisti della sinistra hanno sempre ucciso molti dei loro figli è legata al fatto che le nuove generazioni hanno avuto diritto di cittadinanza solo quando i padri gli hanno aperto la porta e gli hanno detto ‘vai ragazzo tocca a te’”.
    Secondo Funiciello, infine, l’appartenenza alla categoria del compromesso storico è da sempre uno dei requisiti chiave per fare carriera nel mondo della sinistra ed è anche per questo che alla fine dei conti a guidare i partiti eredi del Pci si trovano spesso politici (come Bersani e come le nuove generazioni di politici che fanno parte dell’universo di Bersani) che hanno caratteristiche simili a quelli formati da D’Alema nel 1975 e negli anni seguenti. Funiciello, in questo senso, parla esplicitamente di “cooptazione non meritocratica” e per chiarire questo concetto si affida a una citazione del filosofo tedesco Karl Loewenstein. “Lo schema prevalente della designazione cooptativa della leadership – scriveva nel 1973 Loewenstein – viene meno solo quando la base degli iscritti riesce, con una rivolta di palazzo, a spodestare la dirigenza e ad imporre un proprio gruppo dirigente. Queste rivoluzioni interne ai partiti sono tuttavia rare e sono in genere il segno di un declino o di una crisi del partito da imputarsi al fallimento del gruppo dirigente in carica. Il più delle volte questi conflitti si configurano come contrasti generazionali, ma hanno successo solo se il partito ha ancora una sua vitalità”.
    Una citazione che a modo suo, forse, ci dice qualcosa di più su ciò che davvero si nasconde dietro la trasformazione di Massimo D’Alema nel grande simbolo della rottamazione renziana.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.