Storia di guappi e soldatini
Juventus-Napoli ora è oltre. E’ vera, perché ha svoltato gli anni Ottanta. Ciao nostalgia. Scudetto? Nove giornate non valgono la parola, ma tengono il concetto: diciannove punti contro diciannove punti, primi in classifica insieme, Pirlo, Vucinic, Giovinco contro Hamsik, Pandev, Cavani. Eccolo il concetto: l’ultima sfida che era rimasta ferma a trent’anni fa è tornata viva. Milan-Inter non ha mai avuto problemi: s’è autoalimentata attraverso i suoi campioni e i risultati delle due squadre.
Juventus-Napoli ora è oltre. E’ vera, perché ha svoltato gli anni Ottanta. Ciao nostalgia. Scudetto? Nove giornate non valgono la parola, ma tengono il concetto: diciannove punti contro diciannove punti, primi in classifica insieme, Pirlo, Vucinic, Giovinco contro Hamsik, Pandev, Cavani. Eccolo il concetto: l’ultima sfida che era rimasta ferma a trent’anni fa è tornata viva. Milan-Inter non ha mai avuto problemi: s’è autoalimentata attraverso i suoi campioni e i risultati delle due squadre. Lo stesso per Inter-Juventus e per Milan-Juventus. Persino Juventus-Roma ha schiacciato il suo passato: l’era Capello a Roma ha portato uno scudetto e quello scudetto ha permesso di non rimanere ancorati al ricordo del 1983 e delle sfide d’allora contro la Juventus. L’inizio degli anni Duemila ci ha regalato la sfida Torino-Roma, due città, due idee di pallone, due emisferi. Zeman tornato nella capitale adesso ha rinfrescato la rivalità. Il gol di Turone non è più tutto. Nell’immaginario di Juventus-Roma ora c’è pure Totti che sbeffeggia Tudor indicandogli con la manina il quattro a zero dell’Olimpico e c’è l’umiliazione della Juve alla Roma di Zeman di qualche settimana fa. C’è oggi, non più solo ieri.
Juve-Napoli no. Era rimasta quella del gol di Platini dell’84 e quella del gol di Maradona dell’85 con una punizione unica, calciata dentro l’area tirando indietro il piede. Che c’è stato da allora a oggi? Trent’anni di nulla. Tre decenni di rimpianti: Juve-Napoli preceduta e seguita da quelle immagini sbiadite. A tenerla su sono rimasti i reduci: Diego e Michel, che dopo quei giorni non si sono più incrociati. Paralleli, come due binari della stessa ferrovia. Torino e Napoli, che c’entravano? Platini e Maradona che c’entravano? Vicini, lontani: nel modo di giocare, in quello di vivere da calciatori, in quello di smettere col pallone, in quello di rientrare, in quello di essere adulti. Per noi, per l’Italia, quel confronto è rimasto ad alimentare quella partita e quella rivalità. D’altronde il mondo ha sempre messo a confronto Maradona con Pelé e invece prima o poi si sarebbe dovuto rendere conto che il dualismo metaforico è stato quello: Diego-Michel. Appartengono alla stessa generazione, sono il Sudamerica contro l’Europa, sono stati entrambi italiani, tutti e due hanno lottato contro il sistema del pallone, sono stati stranieri, sono stati fenomeni. Hanno vissuto, ognuno a modo proprio, la stessa era. Uguali nel ruolo, opposti nell’interpretazione. Uguali nella personalità, diversi nel modo di usarla. Uguali nel carisma, differenti nel carattere. Il campo non è mai finito: che fosse Juventus-Napoli o Francia-Argentina loro erano sempre lì.
Con lo zero sul campo, con nessun risultato davvero importante, con l’anonimato di questi tre decenni, Juve-Napoli è stata un derby personale giocato a botte di polemiche. Loro, Michel e Diego si sono cercati, si sono annusati, si sono beccati. L’ultima polemica memorabile durante il Mondiale del Sudafrica è l’esempio. Hanno chiesto a Platini un commento su Maradona allenatore: “Diego commissario tecnico? E’ stato un grande giocatore”. La risposta: “Michel è un francese. Sappiamo tutti come sono i francesi: lui crede di essere chissà chi, ma io non gli ho mai dato importanza”. Poi le scuse, magari un incontro, un sorriso. Nemici come prima. Juventus-Napoli indietro, in avanti, cioè ferma. Con due facce invecchiate e appesantite a ricordarla con il ghigno beffardo di due che si capiscono senza intendersi. Perché c’è stima anche se a volte non si vede. Perché c’è timore di colpire l’altro, anche se a volte sembra il contrario. Sono rimasti calciatori. Sono rimasti bambini. Due dimensioni dello stesso talento: chi sa calciare meglio le punizioni Maradona o Platini? Quelle sfide Juventus-Napoli degli anni Ottanta erano precedute sempre da queste domande. Che poi si sono incontrati pure poche volte: dal 1984 al 1986, perché poi Michel è andato via e ha lasciato Diego a combattere con il Milan più che con la Juventus. Il bello, però, è che quelle domande ce le siamo trascinate ancora. Ogni volta. Ossessionati dall’idea di scoprire una verità che non esiste. A cose così, non si risponde per competenza, ma per passione. Ognuno ha la sua preferenza, senza possibilità di mescolare. Perché Michel e Diego non s’incontrano neanche se cerchi di metterli insieme a ogni costo.
Uno era razionale, l’altro istintivo. Juventus-Napoli, appunto. Come se fosse la personificazione di un’identità popolare e cittadina: uno alto, l’altro basso; uno gambe lunghe, l’altro corte; uno magro, l’altro con la tendenza a ingrassare. Michel è ancora un ironico riflessivo, Diego è uno sprezzante impulsivo. Si sono completati senza neanche saperlo: Maradona avrebbe avuto bisogno di un po’ dell’intelligenza lucida di Michel e Michel avrebbe avuto bisogno dell’incoscienza di Diego. Lo dice la storia, ma non loro. Provate a chiedere a Maradona se gli sarebbe potuto servire qualcosa di Platini. Poi chiedete a Platini se avrebbe desiderato qualcosa di Maradona. Nessuno ha il coraggio di ammettere che insieme sarebbero stati la perfezione. L’unico caso nella storia del pallone in cui due numeri dieci della stessa era, al netto delle personalità, avrebbero potuto giocare nella stessa squadra. Perché gli universi paralleli stanno nelle loro teste e nei loro piedi. Diego è mancino, Michel destrorso, però non è questo che li rende complementari eppure impossibili da far stare nello stesso stampo: è l’idea di calcio che ognuno dei due ha. Perché Michel era un genio gestito, Diego un genio ingestibile. Perché Platini ha smesso quando era al massimo della carriera, Maradona ha accettato di sprofondare nel reducismo da campionissimo invecchiato male.
Non si cambia quando si cresce. Hanno continuato a essere esattamente com’erano, solo con qualche chilo in più e qualche capello in meno. Il campo ha raccontato una verità che la vita ha confermato. Maradona e Platini hanno continuato a rincorrersi senza incontrarsi. E Juventus e Napoli pure. Ancorate alle storie dei loro leader, agganciate a quel biennio statisticamente irrilevante e umanamente decisivo. Un inseguimento ideale, un confronto perenne, una infinita caccia al proprio rivale. Stanno nello stesso mondo con due atteggiamenti che sembrano escludersi. Invece è ancora una corsa sull’altro, anche senza volerlo. La maturità della vita ha trascinato le loro esistenze nella stessa direzione, ma con ritmi e sfumature singolari. Platini ha smesso di essere calciatore ed è diventato allenatore: gli è piaciuto poco ed è finita subito. Maradona s’è ritirato e invece del tecnico ha fatto il presidente ombra della Federazione calcio argentina. Poi Michel ha abbandonato la panchina e s’è preso la poltrona di presidente Uefa, Diego ha lasciato la poltrona di capopopolo del Sudamerica pallonaro e s’è seduto in panchina. Non sembra la dinamica di Juventus e Napoli? La seconda caduta in disgrazia in fretta, come il suo Re: sprofondata in B, poi in C nell’esatto momento in cui Diego era lontano dal suo corpo, vicino alla morte più che alla vita. Platini nel frattempo diventava il padrone del calcio europeo, come la Juventus: i campionati vinti, la Champions del 1998, poi ancora gli scudetti degli anni Duemila.
Diego s’è ripreso e il Napoli anche: l’esistenza più che un vero futuro degno del suo passato. La sua squadra l’ha superato: la doppia promozione, la creazione di una società solida, di un bilancio serio, la costruzione di un gruppo di giocatori credibile. Nel frattempo la Juve giù, con Michel che fallisce l’assalto alla Fifa. Padrone dell’Europa, ma non del mondo. Se l’è passata meglio lui del suo club, certo. Poi la Juve in carreggiata: il ritorno in A un po’ da mediocre fino a Conte, allo scudetto dell’anno scorso. Torino e Napoli paralleli, come Michel e Diego che non si incontrano fino all’incrocio di quest’anno. La finale della Supercoppa italiana giocata in Cina è l’inizio di una nuova stagione. Juventus-Napoli come le altre: come Juventus-Roma, come Milan-Inter, come Milan-Juventus, come Inter-Juventus. Partite vere: presente che supera il passato, o quantomeno lo raggiunge. Non si stracciano i poster di Maradona e Platini. Si tengono lì a ingiallire, nel posto riservato ai ricordi. Ci si può innamorare anche di Pirlo, Vucinic, Giovinco e di Hamsik, Pandev, Cavani. Il meglio che c’è adesso nel pallone d’Italia: non deve per forza superare il passato. Basta che regali qualcosa. Chi vince non prende lo scudetto adesso, però questa partita vale comunque molto più di qualcosa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano