Primo di una serie di articoli
Confesso che abbiamo fallito
Una generazione è fallita, dice Fabio Mussi, che invita dalle colonne di Pubblico l’antico sodale Massimo D’Alema a fare, come lui, il Cincinnato felice di occuparsi dei nipoti, perché “abbiamo già dato, non ti servono cariche o seggi per fare politica”. Si parla soprattutto di fallimento politico. Ma ci sono aspetti più profondi, nelle promesse mancate, nei miti, nell’esperienza della generazione di chi aveva più o meno vent’anni negli anni Settanta, e che potevano far immaginare questo esito?
Una generazione è fallita, dice Fabio Mussi, che invita dalle colonne di Pubblico l’antico sodale Massimo D’Alema a fare, come lui, il Cincinnato felice di occuparsi dei nipoti, perché “abbiamo già dato, non ti servono cariche o seggi per fare politica”. Mentre Pierluigi Castagnetti, che sostiene Bersani contro Renzi il rottamatore nelle primarie del Pd, dichiara alla Stampa che “chi ha attraversato l’intera storia della seconda Repubblica porta su di sé una responsabilità oggettiva, quella di appartenere a una generazione che ha contribuito a una stagione politica conclusasi con una sconfitta clamorosa”.
Si parla soprattutto di fallimento politico. Ma ci sono aspetti più profondi, nelle promesse mancate, nei miti, nell’esperienza della generazione di chi aveva più o meno vent’anni negli anni Settanta, e che potevano far immaginare questo esito? Lo storico ed editorialista Ernesto Galli della Loggia, classe 1942, pensa che “sarebbe ridicolo sentirmi personalmente fallito. Mi accontento ampiamente di quello che sono. Il fallimento generazionale però c’è stato, e anch’io ne sento la responsabilità. Il mio paese è avviato a un declino fortissimo – economico, sociale e soprattutto culturale – almeno dagli anni Novanta. E’ un declino con caratteristiche storiche, non congiunturali, e la mia generazione non l’ha capito in tempo. Abbiamo peccato di ottimismo, e si può capire. Siamo nati e abbiamo vissuto adolescenza e giovinezza in una fase storica straordinariamente favorevole per l’Italia. Qualcosa di quasi miracoloso, che però non poteva durare in eterno, e dovevamo stare attenti a non dissipare circostanze così eccezionali. Noi le abbiamo dissipate. Mentre venivano fatte, tra gli anni Settanta e Ottanta, le leggi che poi avrebbero portato alla situazione attuale su pensioni, sanità, regioni, nessuno di noi ha capito e tantomeno detto che sarebbero state scelte rovinose”.
Ma ancora prima, continua Galli della Loggia “c’è stato un fraintendimento clamoroso sulla politica, alla quale abbiamo guardato come a una prosecuzione dell’onnipotenza giovanile. Siamo quelli che hanno creduto che con la politica si potesse fare tutto. E che tutto era politica, anche andare al cinema e discuterne al cineforum. E’ per questo che il fallimento della nostra generazione coincide con il fallimento della politica, perché abbiamo fatto un investimento nella politica senza confronti con altre generazioni. A differenza di quanto è avvenuto per l’etica, un aspetto molto più difficilmente maneggiabile per chi, come noi, aveva vissuto l’urto della secolarizzazione. I valori morali ci sembravano chiacchiere, quello che contava erano i valori politici. Oggi capiamo che sono i primi a tenere insieme una società nei momenti difficili, a indirizzala sulle scelte di fondo. Mi ricordo, durante una lezione universitaria, alla vigilia del referendum sull’aborto, che dovetti salvare da un assalto due o tre studentesse cattoliche che avevano dichiarato che avrebbero votato contro. Io, all’epoca, ero a favore dell’ipotesi radicale di semplice depenalizzazione, ma apprezzai che ci fosse qualcuno che dichiarava di agire in nome di un principio morale. Un’assoluta rarità”. C’era invece “un mostruoso conformismo di massa, che abbiamo tutti convalidato (parlo della parte di generazione che agiva negli ambiti intellettuali). Non abbiamo valutato l’idea che esisteva un retaggio nazionale, che c’era una storia antica che chiedeva di essere onorata, rielaborata, perché modernizzazione non significava che quella storia non esisteva più. In seguito ho cercato, come potevo, di rimediare con le cose scritte sull’identità italiana e sulla morte della patria. Ma penso che, come appartenente alla mia generazione, oggi questa autocritica vada fatta”.
Ma perché questa più di altre? “Perché agli inizi degli anni Sessanta l’Italia c’era ancora. C’era la Dc, c’era un comunismo italiano… poi la secolarizzazione totale ha colpito anche il retaggio della cultura comunista, ed è un processo che ha avuto come protagonista fondamentale la mia generazione. Questo mi porta poi all’altro grande fallimento: abbiamo asistito imperterriti alla distruzione del sistema di istruzione italiano. Non abbiamo saputo opporre alle stupidaggini di Tullio De Mauro (che ora si è in parte ravveduto) o a quelle di don Milani, il muro d’acciao di derisione e di rifiuto che si meritavano. Io stesso confesso che le demenzialità di don Milani, alla prima lettura, mi lasciarono sbigottito, ma conquistato. Non mi ritrassi inorridito, come avrei dovuto, ma rimasi affascinato anche per quel quid di barbarico che c’era nell’anticulturalismo all’epoca dilagante. Non abbiamo capito che la democratizzazione non era democraticismo e antimeritocrazia, ma il loro contrario”. E’ vero però che a cultura antiautoritaria ha segnato quegli anni un po’ ovunque…
“Ma altrove ci sono state centrali di resistenza, qui niente. Siamo stati travolti dalla modernizzazione, non l’abbiamo governata. Quando una generazione commette errori così gravi, come fa a tirarsi fuori dall’accusa di aver fallito? C’è un’unica attenuante. La mia generazione è arrivata all’età delle responsabilità politiche concrete quando il sistema degli anni Settanta e Ottanta si chiudeva, cementato tra berlinguerismo e compromesso storico, craxismo e doroteismo. Naturalmente molti trenta-quarantenni sono andati a militare in quella politica. A mio avviso, non i migliori”.
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