I protorottamatori

Stefano Di Michele

Si può annunciare come una tempesta che si vede crescere dall’orizzonte – e impotenti si resta lì, in attesa di essere travolti. Può essere una botola che si spalanca sotto i piedi all’improvviso – e ci si ritrova appesi, senza nemmeno aver avvertito lo stringersi della corda intorno al collo. O può essere una sfida portata a viso aperto, con disperata resistenza – e una piccola agonia in dissolvenza finale. Prima che i rottamatori prendessero il camper, la rottamazione aveva altre forme, aveva altri nomi, mai però altre finalità: “Fatti più in lààààà”, come il coro delle benemerite Sorelle Bandiera.

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    “Non aspettare d’essere un sole che tramonta” (Baltasar Gracián)

    Si può annunciare come una tempesta che si vede crescere dall’orizzonte – e impotenti si resta lì, in attesa di essere travolti. Può essere una botola che si spalanca sotto i piedi all’improvviso – e ci si ritrova appesi, senza nemmeno aver avvertito lo stringersi della corda intorno al collo. O può essere una sfida portata a viso aperto, con disperata resistenza – e una piccola agonia in dissolvenza finale. Prima che i rottamatori prendessero il camper, la rottamazione aveva altre forme, aveva altri nomi, mai però altre finalità: “Fatti più in lààààà”, come il coro delle benemerite Sorelle Bandiera. La voglia sempre di quel posto, di quella carica, di quel feudo elettorale, di quell’intero reame politico, magari. La rottamazione – travasata dal linguaggio neorealista degli sfasciacarrozze a quello neopolitologico delle cronache politiche – non si chiamava così, ma così era: da Bruto “tu quoque” e Cassio a Matteo il camperista (a sinistra) e Beppe il nuotatore (tra stelle e lo Stretto) e Daniela la plastificatrice, “a me la plastica piace moltissimo” (a destra). E come le Sorelle Bandiera ci davano sotto con gran lavoro di colpi di chiappe alla vicina consorella – “fatti più in lààààà!” – adesso si procede a colpi di raffica su Twitter e su Facebook, con riversamento politico-musicale dalle parti di Renato Zero: “Vecchio, diranno che sei vecchio (…) / Ma sei vecchio / ti chiameranno vecchio / e tutta la tua rabbia viene su  (…) E sei tagliato fuori / quelle tue convinzioni, le nuove son migliori / le tue non vanno più…”. In fondo Renzi – lodato da certi imprenditori milanesi perché “non ha letto Marx”: se si è tenuto lontano anche da Gramsci, come minimo gli tocca l’Expo – che sul (e del) rottamare ha costruito per intero la sua Iliade guerresca e il suo quotidiano tafferuglio anagrafico, non ha inventato nulla, a parte irruvidire il linguaggio: è la pratica più antica del mondo (politico), la sua.

    La  spernacchiata Prima Repubblica – seppur il suo modo rispetto a oggi ancor meno offende – ne fece largo e feroce uso: e il sangue e la merda di formichiana derivazione trovano in quell’atto tribale la loro esplicita spiegazione, come raccontano antiche storie democristiane, antichi riti comunisti. Ché in fondo l’offesa è questione secondaria rispetto alla necessità che essa avvenga – e non c’è leader che non veda un giorno avvicinarsi l’amaro calice, e  c’è chi ha dovuto tracannarlo persino ringraziando pubblicamente il coppiere che glielo serviva con gelido sorriso. L’ombra, come da evocazione andreottiana in fase di frenetico rinnovamento, sull’arrivo di quelli che “vogliono insegnare il Credo agli apostoli”, perennemente s’allunga. Tutto necessario per la darwiniana sopravvivenza della specie, tutto sempre piuttosto sgradevole (fino alla sgradevolezza del lancio delle monetine) per lo stomaco, tutto infine abbastanza visto. Con a volte il malcelato ghigno da soddisfazione per il  cane morto da lasciarsi dietro le spalle.

    A rimuovere, a rottamare – a mettere, il più delle volte, così spesso i propri vizi a disposizione della causa della virtù, quasi a far eco alla massima di san Girolamo – a procedere con ruspe e cingolati, appare (e spesso è) opera da addetti ai traslochi, da bracciantato vocato all’aratura, da manovalanza di buoni polmoni fornita. Ma altrettanto spesso è invece opera d’intelligenza politica, di cervelli veloci, di rapidità nel cogliere e indirizzare gli eventi. Chi mai ha potuto vedere chiaramente nel mistero di Wilma Montesi, di quel povero cadavere sulla spiaggia di Capocotta all’inizio degli anni Cinquanta – dietro le storie di orge, memoriali infuocati, processi epocali? Il mistero rimane, ma una certezza politica invece si fece subito strada e ha resistito nei decenni: che con l’arresto dell’innocente musicista jazz Piero Piccioni quel cadavere venne fatto scivolare, in un gioco di specchi, allusioni, misteriosi sussurri, tra i piedi di suo padre Attilio,  potente e fresco ex ministro degli Esteri, che uscì così definitivamente di scena. Fu l’irrompere al vertice della Dc della giovane generazione fanfaniana, che trionfò al congresso di Napoli emarginando la vecchia guardia. Fu uno scontro feroce, non solo nelle stanze democristiane, ma nei ministeri, tra le forze dell’ordine – si diceva che la polizia lavorasse per far cadere la faccenda nell’ombra, mentre i carabinieri si davano da fare perché i riflettori rimanessero accesi. Siccome, sia rispetto alla sapienza che rispetto alla ferocia degli antichi democristiani, i rottamatori di oggi fanno comunque la figura di figlioli alle prese con il Lego in cameretta, ecco che nella faccenda – nella strategia dell’utilizzo politico della morte della povera Montesi – tutto veniva buono, anche il nemico comunista. Ha raccontato Pietro Ingrao, all’epoca direttore dell’Unità: “Ricordo nettamente che le prime notizie, le prime spiate sugli ambienti di Capocotta dove si erano svolti i fatti e quindi la spinta a occuparci del caso venne da Amintore Fanfani e dai fanfaniani. Furono loro a metterci sulla pista, spingendoci a seguire bene la cosa. E noi trovammo appoggio negli ambienti del ministero degli Interni, dove c’era un segugio che ci passava la informazioni” – dicono fosse, tale “segugio”, un colonnello dei carabinieri, vicino all’emergente  leader democristiano aretino.

    Figurarsi che quelli di piazza del Gesù finirono praticamente con il rottamare anche Alcide De Gasperi – che era De Gasperi, mica Fioroni. E ci riuscirono, con un certo stile, ma ci riuscirono, nonostante un altro notabile di gran rango come Guido Gonella avvertisse per lettera il diretto interessato: “Imbarcare Fanfani all’Interno è un grosso errore: te ne dovresti pentire a breve scadenza per primo te stesso: ti metterà di fronte ai fatti compiuti e i fatti saranno spiacevoli”. E in uno storico Consiglio nazionale, un anno prima della morte dello statista, molti voti vennero a mancare. “Era un incredibile smacco per il leader mai fino ad allora contestato dal partito. Ricordo il pallore dipinto sul volto di De Gasperi madido di sudore. Seduto immobile alla presidenza sembrava annichilito…”. Di solito i democristiani, avendo l’intelligenza della misura, nello scontro interno procedevano per sottrazione più che per accumulo, con quelle movenze prelatesche di un sorriso negato, di una mano non tesa, di uno sguardo abbassato – che significavano voti negati nel segreto dell’urna oggi per il partito, domani per il Quirinale. E così, ripetutamente, fallì Fanfani, che sulle schede invece del suo nome trovava scritto “Nano maledetto, non sarai eletto!”, nonostante i parlamentari democristiani fossero stati sistemati in scaglioni per meglio controllarne il voto, che doveva scrivere chi con la penna rossa chi con la penna nera, chi il nome completo di Amintore Fanfani chi il solo cognome, chi doveva aggiungere “professore” e chi “senatore”. Tutto inutile: se seriamente da rottamare c’era, quelli del Biancofiore seriamente rottamavano, senza neanche passare da un casello autostradale.

    E’ ricca di colpi di mano, la storia di quel fondamentale partito italiano. Ognuno dei suoi leader più importanti ha subito almeno una rottamazione, una rimozione, un’esclusione. Così Fanfani, così Andreotti, così Forlani – che aveva poi sempre l’aria di ringraziare per la forzata messa a riposo, e anziché invocare sconquassi, citando e subito smentendo Lenin si consolava: “Diceva che la felicità è nella lotta. Non mi pare proprio”. E così persino per Moro si narra di quei giorni di abbandono, quando i biglietti di auguri a Natale sensibilmente diminuivano. E di come sul palco di un congresso di partito a fine  anni Sessanta, dopo che aveva dovuto abbandonare Palazzo Chigi, “allontanato dal governo, messo in minoranza ed emarginato all’interno della Dc”,  fu sistemato nell’ultima sedia dell’ultima fila, “appartato e snobbato da tutti”, registrarono i giornali  – ma la rottamazione ha insieme un fondamento di necessità e uno di stupidità, cuore d’asino e cuore di leone, così che in quell’emarginazione Moro cominciò la sua riflessione – “nuovi tempi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili…” – che ne avrebbe fatto un leader ancora più forte, e forse lo condusse al sacrificio estremo nello scannatoio brigatista.

    La Dc aveva un suo particolare tramestio da sacrestia, un soffuso soffocato grugnito di scontento, un vago odore di antico borotalco persisteva persino intorno all’affilare di lame, ma pure questi toni bassi potevano esplodere in pubbliche estromissioni/rottamazioni/sostituzioni di potere. Così fu quando, a metà degli anni Cinquanta, i “Giovani Turchi” sardi – c’era pure un gruppetto detto dei “Giamburrasca”, a riprova di come le cose, persino nomi e soprannomi, sempre uguali tornano – guidati da Francesco Cossiga, “eravamo in rotta di collisione con vecchi personaggi che non concedevano alcuna libertà”, misero l’ipoteca sul potere assoluto del doroteo Antonio Segni, futuro presidente della Repubblica, nell’isola. Era spesso l’allievo che superava il maestro – e nel superarlo doveva pubblicamente marcarne la sopravvenuta irrilevanza – e antichi (fraterni, si pensava; amici, dicevano sempre i democristiani, così che le parole tradiscono spesso le intenzioni) sodalizi precipitavano in definitive incomprensioni: la rottamazione ha necessità e bisogno di pubblica consacrazione, pur se a volte mascherata da “fuga mundi” vuole apparire: si sappia, anche se non si discute.

    Epico fu lo scontro, in quel di Avellino, alla fine degli anni Sessanta, tra l’antico notabile Fiorentino Sullo e l’emergente Ciriaco De Mita, suo ex pupillo. Una battaglia durissima in ognuna delle 167 sezioni della provincia, una per una, “scontri, zuffe, episodi di intolleranza”, resocontavano i giornali. “Siamo diversi per mentalità, per metodi, per programmi!”, s’infervorava De Mita. “Luciferina volontà!”, replicavano i sostenitori dell’allora potente ministro della Pubblica istruzione: si vuole cancellare, era l’accusa, “il rapporto di paternità che lega l’on Sullo alla Democrazia cristiana dell’Irpinia”. “E’ la vostra stoltezza – controreplica demitiana dopo il finale trionfo – che ci ha permesso di vincere!”. Meno clamorosa, ma a suo modo con un fondo ancora più tragico, la contesa tra Mariano Rumor, capo dei dorotei veneti, cinque volte capo del governo, e il suo discepolo Toni Bisaglia. Tanto era potente e tanto era popolare Rumor, detto “il Pio Mariano”, nel Veneto lontano dai fasti e dai misfatti delle glorie del nord-est, che “a capo letto di molti vicentini accanto all’immagine della Madonna di Monte Berico c’era la sua”. Poco a poco, il vispo, sveglio Bisaglia mangia il feudo elettorale del suo protettore politico, nelle sacrestie e nei conventi tra Vicenza e Padova il suo “santino elettorale” sostituisce quello del beato e venerato “Pio Mariano” – e alla fine,  d’accordo con l’altro capo doroteo, Flaminio Piccoli, lo mette in minoranza – rottamazione dorotea, di tipo silenziosa e spietata. E allora le cronache dicono ancor di più della storia, e c’è questa immagine triste di Rumor, roseo e massiccio e gentile, che attraversa il Transatlantico, dove per anni e anni era stato omaggiato quale feudatario capo della Dc, in silenzio e in solitudine, e magari a volte tendeva la mano a qualcuno per salutare, e quella mano ora a volte non veniva raccolta.

    La spietatezza della rottamazione tra i comunisti – sempre silenziosa: se nella Dc era soffuso rumore proveniente dalla sacrestia, nel Pci era assoluto oblio da chiostro di convento di clausura – era questione di ombre e di assenza di domande. Il caso più clamoroso fu quello di Pietro Secchia, “L’uomo che sognava la lotta armata” del bel libro di Miriam Mafai (il vice di Togliatti, il potente capo dell’Organizzazione, il suo maggiore oppositore, il riferimento dell’ala ortodossa), che il Migliore rottamò – mentre lo sguardo mediatico dell’Italia era puntato sul caso Montesi – verso la periferica segreteria lombarda dopo la fuga del suo protetto, Giulio Seniga detto Nino, con i soldi e molti documenti del partito. Un esempio da manuale di quelle che Umberto Terracini chiamava con ironia le “fraterne persecuzioni” all’interno del partito. Fu una strenua resistenza, quella di Secchia, un dibattersi inconcludente nella tela di ragno del partito degli anni Cinquanta che non vedeva, non domandava, non sapeva. Alla fine fu costretto, dentro l’impenetrabilità di Botteghe Oscure, alla resa e all’autodafé davanti al vertice comunista: “Sono consapevole della gravità dei miei errori che denotano che ho lavorato con estrema leggerezza, con bonomia, con mancanza di vigilanza… Mi rendo conto che questo significa non saper dirigere… Ringrazio i compagni della Direzione del partito che, dimostrandomi la loro fiducia, mi hanno aiutato a scorgere in modo completo e in tutta la loro gravità i miei errori…”. Fu rimosso dal vertice, salì a Milano, entrò per sempre nell’ombra e nella dimenticanza. “C’è in noi questa melanconia segreta di sentirci ormai impotenti… ci sentiamo separati dal partito e in un certo senso dal popolo oggi lontano dall’idea di dover combattere lotte rivoluzionarie…”. Scrive la Mafai: “Nessuno chiese spiegazione e nessuno ne diede”. A volte era una sola frase, un breve inciso, in anni più recenti, a marcare l’avvenuta rottamazione – pur se nemmeno di più garbata sostituzione si parlava, come quando Berlinguer decise che era il momento di porre un argine al potere del rappresentante di maggior peso dell’ala filosovietica al vertice del Pci, estromettendolo dal massimo organo decisionale.

    Pochissime parole: “Il compagno Cossutta ha accumulato molto potere, del quale, per la verità, non ha mai abusato”. Scriverà il diretto interessato, anni dopo, nella sua autobiografia “Una storia comunista”: “Per quanto mi riguarda, ritrovarmi dopo nove anni fuori dal massimo organismo dirigente del partito suscitò in me sconcerto e amarezza. Per la mia uscita dalla segreteria non furono addotte ragioni politiche, e in ogni caso allora non si usava”. E in fondo di una rottamazione si trattò quando, dopo un malore prima di un comizio, Occhetto e D’Alema, da lui promossi al vertice del partito, si presentarono in ospedale da Alessandro Natta per accelerare la sua uscita di scena da segretario del Pci. Fu un amaro epilogo, per il professore successore di Berlinguer. Non fu in grado di resistere alla pressione. E con amarezza spiegò in seguito: “L’ospedale è un po’ come il lager: la perdita di responsabilità, non hai più il potere di decidere di te stesso. Il priore dei francescani quando conclude il mandato torna ad essere un semplice frate”.

    E’ strumento inevitabile, ma sempre da maneggiare con cura e sapienza, la rottamazione. Forse lo stesso Renzi ha capito di essersi spinto troppo oltre – c’è un confine sottile tra la rottamazione come necessità di rinnovamento e la rottamazione come ambizione personale. Così, secondo il Corriere, adesso prova a riequilibrare la rotta: “La rottamazione? Una frase bieca, truce e volgare. Ma mi ha portato titoli sui giornali e mi ha reso credibile”. Un uso azzardato anche della retromarcia – che né gli antichi diccì né gli antichi comunisti avrebbero commesso: rivendicare la propria credibilità da una cosa riconosciuta come “bieca, truce e volgare”, un errore da matita rossa. Da far leccere i baffi a D’Alema: che lestamente si è allontanato dalla panchina dei giardinetti per provare a indirizzare Renzi stesso verso un parco. Parco giochi, magari: non panchine, scivoli.

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