Ma anche tu hai fallito?/3

Hanno vinto gli scantinati dello stato, ha perso ancora Don Chisciotte

Nicoletta Tiliacos

“Chi è quell’imbecille? Sono io”. All’inizio del primo numero di “Diario”, la rivista di critica (e satira) delle idee diretta da Piergiorgio Bellocchio e da Alfonso Berardinelli tra il 1985 e il 1993 (la collezione completa l’ha ripubblicata Quodlibet), c’è uno scambio di battute da un film di Totò. Nell’articolo di apertura, Bellocchio – si parlava già di fallimento di una generazione, che per brevità chiameremo “la generazione del Sessantotto” – si proponeva di “limitare il disonore”: “Un obiettivo che vent’anni fa – scriveva Bellocchio – avrei trovato ripugnante e assurdo, in quanto onore e disonore non sono graduabili.

    Roma. “Chi è quell’imbecille? Sono io”. All’inizio del primo numero di “Diario”, la rivista di critica (e satira) delle idee diretta da Piergiorgio Bellocchio e da Alfonso Berardinelli tra il 1985 e il 1993 (la collezione completa l’ha ripubblicata Quodlibet), c’è uno scambio di battute da un film di Totò. Nell’articolo di apertura, Bellocchio – si parlava già di fallimento di una generazione, che per brevità chiameremo “la generazione del Sessantotto” – si proponeva di “limitare il disonore”: “Un obiettivo che vent’anni fa – scriveva Bellocchio – avrei trovato ripugnante e assurdo, in quanto onore e disonore non sono graduabili. E in effetti si tratta di un proposito ben misero, una guitteria morale, una trovata da servo di commedia. Ma quand’ero giovane non potevo ipotizzare un fallimento di queste proporzioni. Se allora immaginavo il peggio, era la sconfitta politica a opera della controrivoluzione, e si manifestava nella repressione che, per quanto spietata (o proprio per questo), garantiva ai vinti l’onore dell’esilio, della prigione e, al meglio, la gloria del patibolo. Il destino è stato derisorio. Nessuno vuole ucciderti. La razione quotidiana di offese che patisci proviene da istituzioni e da persone animate dalle migliori intenzioni”.

    Quasi trent’anni dopo, Alfonso Berardinelli ragiona sul fallimento della generazione che voleva cambiare il mondo: “Non parlerei però di una ma di almeno due o tre generazioni ‘fallite’. Il fallimento della sinistra risale almeno a venti-trent’anni fa. Nasce con il terrorismo e con l’incapacità di quella che si chiamava all’epoca ‘nuova sinistra’ di mettere in campo autodifese e antidoti. Si dice che il Sessantotto fu un fenomeno di rinnovamento del costume e di questo molti si esaltano o si accontentano. Non è vero niente. La nuova sinistra degli anni Sessanta e Settanta è stata dominata dall’idea di rivoluzione e della sua attualità. C’erano alcuni che la chiamavano più moderatamente – o più astutamente – ‘transizione’, come quelli del Manifesto, ma si trattava di una politica assolutamente anti sistema. Alla fine degli anni Settanta la cosa si è rivelata impossibile, ma il fenomeno peggiore è la profonda contaminazione che le dirigenze sindacali hanno subìto da parte delle élite intellettuali di sinistra e dell’ideologia antisistema. Il sindacato non dovrebbe essere questo. Nel momento in cui rifiuta nei fatti la maledetta compatibilità con il sistema, non è più un sindacato e diventa anche un fattore di paralisi di qualsiasi rinnovamento: non può fare una rivoluzione, ma si comporta come se il sistema dovesse saltare. Questa situazione si è protratta perfino al di là della sconfitta, ed è stata assecondata dalle forze politiche di sinistra che non volevano fare la ‘brutta figura’ di chi tradisce le sue vecchie idee”. Per Berardinelli tutto questo “è stato un disastro, ed è il motivo per cui l’Italia è rimasta un sistema squilibrato, con rappresentanze sindacali che cercavano di ottenere vantaggi secondo una logica che impediva al capitalismo italiano non solo di crescere ma anche di sopravvivere. Lo squilibrio è stato compensato dal paterno intervento dello stato, che ha speso enormi cifre per continuare a governare un conflitto che non c’era nemmeno più, quantomeno nella forma esplosiva degli anni precedenti”.

    Oggi, la proposta blairiana di Matteo Renzi, con l’idea di rivalutare merito ed efficienza, sembra riscuotere applausi anche lì dove uno non se li aspetterebbe. Ma per Berardinelli questo è “solo il sintomo di quanto conservativa sia stata la classe politica di sinistra, Veltroni e D’Alema compresi. Doveva arrivare uno come Renzi, a trasformare la vita dell’ex Partito comunista?”. E’ invece un altro fallimento a sorprendere di più, “quello della generazione di neo destra che ha assorbito la vecchia destra, i neo fascisti democratizzati (verso i quali, per inciso, non nutro nessuna ostilità, mi aspetto solo che facciano qualcosa di meglio quando governano e amministrano). E allora? Come mai è fallita anche la cultura di neo destra che prometteva merito, efficienza, ordine sociale? Non parlo volutamente di individualismo, cioè di qualcosa che in Italia ha avuto sempre cattiva stampa e odio simmetrico, da destra e da sinistra, e che non è mai stato digerito come fondamento della modernità e della democrazia. C’è stata una destra che nata dalla nausea per la retorica di sinistra e per la sua impotenza, nonostante le grandi esibizioni del contrario. E la società è cambiata, dagli anni Ottanta in poi, moltissimo, assorbendo valori di sinistra e valori di destra, istintivamente e per osmosi sociale. Ma l’intervento politico spesso crede di governare fenomeni che per lo più gli sfuggono”.

    Alfonso Berardinelli sottolinea che “il conflitto sociale ha bisogno di auto-organizzazione, e i partiti sono questo. Ma sono anche, fisiologicamente, un momento di ossificazione del conflitto, perché tendono a perpetuarlo in forme superate. In un certo senso, allora, in Italia stiamo attraversando un momento fantastico, con le vecchie forme che vanno per aria. Certo, pensare che si formino organizzazioni nuove a ogni situazione è un po’ romantico, lo ammetto, oltre che utopistico. E’ però certo che l’impotenza a governare delle classi politiche della generazione di cui stiamo parlando nasce dal fatto che l’appartenenza partitica ha sempre prevalso nei confronti del senso dello stato. I partiti, di destra e di sinistra, hanno funzionato come voraci parassiti dello stato, ne hanno preso il posto. La generazione del Sessantotto è entrata ope legis nell’università bloccando l’accesso ai più giovani per decenni. Quello che era un movimento, si è trasformato in generazione corporativa”.
    Sul piano più individuale, dice ancora Berardinelli, “se considero la mia esperienza, che non è mai stata strettamente politica – anzi, mi è sempre stato difficile capire la sopravvalutazione della politica – e mi confronto con i letterati che hanno vent’anni meno di me, mi sento subito di estrema sinistra: disprezzo i premi, non m’interessa il successo, penso anzi che il successo sia qualcosa di osceno, che tra l’altro non ha niente a che fare con la letteratura. Chi ha venti-trenta anni di meno, invece, nei premi ci crede: anche se si sente anarchico, li vuole, eccome. Io sono convinto che, sul terreno della cultura, le opzioni anti sistema siano legittime se restano individuali. Se invece diventano la ‘generazione Xy’ non mi interessano”.

    Berardinelli cita una pagina di Carlo Levi nell’“Orologio”, scritta proprio all’uscita dal fascismo, “negli anni in cui si parlava di rinnovamento generale dell’Italia, della sua politica, delle sue istituzioni, del modo di concepire lo stato, la libertà, la partecipazione civile. Tutto doveva essere rinnovato dopo il Ventennio. Ma c’era un ostacolo. ‘Voi non sapete che cos’è un ministero’, scriveva Carlo Levi: c’è qualcosa negli scantinati dello stato che lavora per la conservazione, che paralizza, scoraggia, rende velleitaria e donchisciottesca ogni iniziativa di trasformazione. Io penso che questa trappola degli scantinati dello stato italiano, in cui la discontinuità non c’è mai stata, abbia finito per ingoiare l’ottimismo, la volontà anche sincera, sia della sinistra riformatrice, sia della destra che voleva una maggiore efficienza nella produzione della ricchezza. L’ideologia berlusconiana, in fondo, è stata questo: i poveri aiutino i ricchi a diventare più ricchi, in modo che i ricchi poi possano aiutare i poveri a diventare un po’ ricchi anche loro. E’ andata male. Efficienza, ordine, controllo della produzione, merito, saper lavorare: sono tutte cose di destra? A lungo è sembrato di sì. Uno dei peccati maggiori, alla base del fallimento di cui ci stiamo occupando, è stata la denigrazione del lavoro ben fatto. Ricordo Franco Fortini, che non ha mai smesso di insistere su questo punto: il lavoro ben fatto vale sempre. Ma il lavoro è il lavoro capitalistico e allora va boicottato, si replicava da sinistra. Nemmeno la destra è riuscita ad affermare quel principio. Un paese è in declino quando si lavora male, quando non si crede più nel lavoro ben fatto”.

    Ma non ha fallito anche la sinistra riformista? “Sì, perché eravamo fuori tempo massimo, siamo arrivati alla socialdemocrazia con decenni di ritardo. L’errore originario, a pensarci bene, fu la scissione del Partito socialista all’inizio degli anni Venti, quando si decise di ‘fare come in Russia’. Non dimentichiamo che Craxi fu percepito e combattuto dalla sinistra come fosse una specie di fascista. Si era allontanato dai comunisti e magari fosse riuscito a dare forza al Partito socialista. Invece, volendo o non volendo, lo ha distrutto. Sia la generazione di sinistra, sia quella neoliberista stufa della sinistra, sono fallite nell’incapacità di trasformare la vita politica nei e dei partiti. La mia posizione personale, oggi, è che non mi identifico né con la sinistra né con la destra. Sono rimasto un anti istituzionale, non politicamente (magari le istituzioni funzionassero!) ma per ragioni idiosincratiche, di carattere. Confesso di sentirmi a mio agio nel fallimento sociale. Sono un autore ‘da rivista’ e le riviste oggi non esistono o non contano più. Il mio genere è la critica e la satira culturale. Forse in una cultura meno bigotta avrei potuto avere più ascolto. Ma sono rimasto in Italia, non sono andato in America e non ho scritto bestseller. Tutto qui. Ognuno è quello che è, secondo i pesi e le misure del paese in cui è vissuto”.