Murdoch sulla riva del fiume

Paola Peduzzi

Prendete i vostri soldi e andatevene, non m’importa nulla, non siete obbligati a rimanere, ma se scegliete di restare, piantatela con le lamentele e i piagnistei e le pretese: qui comando io, è casa mia, la News Corp. è e resterà di un Murdoch. “Quando compri un’azione, sai di che azienda è. E se l’azienda non ti piace, allora non comprare le azioni”, ha detto Rupert Murdoch, tycoon ultraottantenne, alla fine dell’incontro con gli investitori, la settimana scorsa.

    Prendete i vostri soldi e andatevene, non m’importa nulla, non siete obbligati a rimanere, ma se scegliete di restare, piantatela con le lamentele e i piagnistei e le pretese: qui comando io, è casa mia, la News Corp. è e resterà di un Murdoch. “Quando compri un’azione, sai di che azienda è. E se l’azienda non ti piace, allora non comprare le azioni”, ha detto Rupert Murdoch, tycoon ultraottantenne, alla fine dell’incontro con gli investitori, la settimana scorsa. Come sempre, da quando l’impero di News Corp. è finito sotto accusa per le intercettazioni illegali nel Regno Unito, le attese prima del meeting erano apocalittiche: gli investitori rumoreggiano, vogliono chiarezza e trasparenza, Rupert è anziano, non ha più un successore, i figli cadono uno via l’altro prima di arrivare al trono, dev’essere resa nota una strategia, altrimenti i mercati si spaventano. Non c’è più fiducia nel gruppo – dicono gli esperti – e la leadership murdochiana è debole: ci vuole una faccia nuova, qualcuno che non sia legato alla famiglia, che non abbia quel cognome. Rupert cadrà. Finirà. Sarà travolto. Si ritirerà.

    Lo “Squalo” guarda e passa, si limita a consegnare a Twitter i suoi pensieri, minieditoriali di 140 caratteri, velenosissimi, e quando qualcuno gli chiede spiegazioni – “che cosa intendeva dire con quel tweet riferito agli azionisti ‘take profits and sell’”? – lui alza la manona e dice sprezzante: “Ma per piacere!”. Davvero non avete capito che cosa vuol dire “prendetevi i soldi e vendete”? Davvero avete bisogno di una spiegazione? Murdoch non ha intenzione di piegarsi alle pressioni, fa come vuole lui, come ha sempre fatto, e se esagera, se sbaglia, è disposto persino a scusarsi, guarda un po’ come si diventa accondiscendenti con l’età (come quando, sempre via Twitter, ha parlato di “scumbag celebrities”, vip-spazzatura, e poi ha chiarito che non si riferiva a tutte le celebrities, e scusate se mi sono espresso male, e non ci ha creduto nessuno). Ma lo spettacolo che sta godendosi adesso Murdoch, seduto sulla riva del suo fiume, è davvero imperdibile. Dall’estate del 2011 non si fa che scrivere necrologi sul colosso News Corp. e invece ora cadono tutti gli altri, tutti attorno a lui, tutti gli accusatori, i moralizzatori, i “buoni”. Vengono giù che non pare vero, e sotto si sente il ghigno di Murdoch come unica colonna sonora.

    Il 14 ottobre scorso Rupert Murdoch twittava (con refuso, cosa comune, ma lui se ne frega): “Saville-BBC story long way to run. BBC far the biggest, most powerful organization in UK”. Era appena scoppiato lo scandalo di Jimmy Savile, mitico conduttore della Bbc morto un anno fa col vizio, pare, della pedofilia, coperto, pare, dai suoi capi della Bbc: sembrava che la questione potesse risolversi con qualche conto interno alla grande emittente britannica regolato con trent’anni di ritardo e invece ieri il neodirettore della Bbc, George Entwistle, si è ritrovato a testimoniare davanti alla commissione Cultura dei Comuni, come un Murdoch qualsiasi.

    John Simpson, uno dei colossi della Bbc in materia di politica internazionale, ha detto: “Tutto quel che abbiamo come organizzazione è la fiducia della gente che ci guarda e ci ascolta e se la perdiamo, be’, è molto pericoloso”. Questo episodio – ci sarebbero stati 200 abusi di ragazzine da parte di Savile, ma c’è chi dice 400, ormai anche le vittime del pedofilo si muovono in “binders”: montagne di prove ignorate per decenni – rappresenta “la peggior crisi che mi ricordo in cinquant’anni alla Bbc”. Ora i giornali britannici si chiedono se davvero è la crisi dei record o se ce ne siano state di peggiori, ma la classifica non è interessante: la Bbc ha dovuto aprire un’inchiesta interna, ha dovuto licenziare il direttore di una trasmissione di culto come “Newsnight” (quella condotta da Jeremy Paxman, se avete presente il genere: giornalista rompicoglioni e antipatico che analizza vita dei politici e altro, e quando li intervista li manda sull’orlo dell’esaurimento nervoso), s’è dovuta sorbire la reprimenda del premier, David Cameron, e ancora non sa da che parte sia l’uscita.

    Murdoch dice che non c’è organizzazione più grande e più potente della Bbc, in Inghilterra, e naturalmente non sbaglia: la zietta, com’è chiamata dagli inglesi, scandisce la vita del Regno Unito, la influenza, la dirige. Soprattutto si erge a commentatrice unica e definitiva, quando si tratta di moralità pubblica, e perfino privata. Più regole, più disciplina, ripete la Bbc da quando il gruppo Murdoch è stato coinvolto nello scandalo delle intercettazioni, per non parlare della copertura aggressiva e – giustamente, dal suo punto di vista – indignata delle notizie sui legami tra il governo Cameron e i Murdoch nell’acquisizione di BSkyB, acquisizione che avrebbe modificato definitivamente il mercato delle tv satellitari nel Regno Unito. Più regole e più disciplina, fuori dalla Bbc però. Perché dentro nessuno ha controllato, molti hanno omesso, molti hanno taciuto – come ha raccontato un servizio-inchiesta su Savile andato in onda lunedì sera indovinate dove? Sulla Bbc, naturalmente.
    La zietta dovrà dimostrare tutto il suo potere e la sua grandezza per uscire da questo scandalo, ma intanto tutto il sistema mediatico inglese dovrà fare i conti con i suoi tarli. Ed è qui che ritorna – armi in pugno – il ghigno di Murdoch. Per la fine di novembre o al più tardi inizio dicembre è prevista la pubblicazione dei risultati dell’inchiesta istruita da Lord Justice Leveson in seguito alle intercettazioni illegali fatte dal gruppo Murdoch. Tutti si aspettano raccomandazioni sull’introduzione di maggiori regole – o istituzioni regolatorie – nella gestione della stampa. Ma spetta al governo decidere che cosa implementare e cosa no. Il premier conservatore David Cameron, all’indomani dello scandalo murdochiano che più volte lo ha tirato in mezzo e lo ha messo a rischio di caduta, lui già che sta in piedi a fatica, aveva dato ordine di fare inchieste incrociate, parallele, divise ma vicine, qualsiasi cosa pur che emergesse la volontà del governo di fare luce e di mettere un guinzaglio ai giornalisti spregiudicati. Ancora oggi dice: “Lo status quo non è un’opzione. Io e tutti i partiti vogliamo mettere in atto un sistema di regole più sensato”. Ma nel suo partito litigarello – per non parlare delle faide con i compagni di coalizione, i liberaldemocratici – non sono tutti d’accordo.

    Michael Gove, ministro dell’Istruzione ed ex impiegato di Murdoch come giornalista al Times, ha spesso ricordato che una stampa non libera è pericolosa per tutta la società. Lo ha fatto anche testimoniando davanti alla commissione Leveson: le leggi per punire le violazioni di privacy, copyright, il furto di dati, la diffamazione, l’hacking esistono già – sostiene Gove – bisogna applicare quelle e non aggiungerne altre, per quanto soft. Ken Clarke, ex ministro della Giustizia e peso massimo dei Tory, è a favore dell’introduzione di qualche regola, da parte del Parlamento, ma a sentirlo parlare pensa a qualcosa di diverso rispetto a una legislazione “proporzionata e funzionale” per limitare i poteri della stampa auspicata dal vicepremier liberaldemocratico Nick Clegg.

    Mike Hume, giornalista e saggista che ha pubblicato dopo l’estate un libro dal titolo “There Is No Such Thing As a Free Press”, sostiene che “Cameron si dovrebbe pentire di tutta la gestione” della crisi murdochiana, sfociata nella commissione Leveson. “Con tutti i problemi che il premier ha – continua Hume, intervistato dal Sunday Times, di proprietà di Murdoch, che si sta portando avanti con i lavori: domenica dedicava il suo editoriale al rischio di censura implicito nelle raccomandazioni del giudice Leveson – questo se l’è proprio causato da solo. E’ imprigionato tra Michael Gove e Hugh Grant (l’attore vittima degli hackeraggi del gruppo Murdoch)”. Alla conferenza dei Tory, a inizio ottobre a Birmingham, Cameron è stato incalzato sulla questione dalla lettera scritta da 60 vittime delle intercettazioni legali – tra cui l’attore Jude Law, che fu hackerato ai tempi del flirt con la tata dei suoi figli: un giorno faremo una lista di tutto quel che abbiamo saputo in seguito all’hackeraggio, hai voglia a risarcirle queste vittime, ci sono pettegolezzi che non scorderemo mai, e per i quali non saremo disposti a barattare nessun genere di moralismo, per quanto non lo ammetteremo mai in società – che lo accuseranno di “tradimento” se non metterà un freno alla stampa.

    Sull’entità del freno ci sarà da discutere, ma la campagna contro qualsiasi regola è già cominciata, e certo Cameron non voleva trovarcisi in mezzo. Anche perché Murdoch non perde occasione per ricordargli quanto sia pericoloso mettersi contro News Corp. Su Twitter, il tycoon pizzica di continuo il premier, ma è il Sunday Times il braccio armato di Murdoch contro Cameron: ogni domenica c’è un’apertura politica sulle liti interne ai conservatori. Quando si tratta di parlare del principale rivale del premier, il sindaco di Londra Boris Johnson, ci sono soltanto elogi e apprezzamenti. Per tutti gli altri critiche: due domeniche fa si è raggiunto l’apice, con un editoriale in cui non soltanto si diceva che il governo Cameron è inefficace, ma pure del tutto incompetente. I figli di papà dovrebbero fare un altro mestiere – si leggeva tra le righe – a meno che non si chiamino Boris e siano più rispettosi del volere di Murdoch.

    Nella campagna contro le conseguenze della commissione Leveson, sempre il Sunday Times ha anche concesso l’onore delle armi agli avversari. Con le regole che si vogliono introdurre, non ci sarebbe mai stato lo scoop giornalistico del Watergate – sostiene il settimanale – ma neppure quello del Guardian che, alla fine degli anni Novanta, portò in prigione il parlamentare conservatore Jonathan Aitken. Il Guardian è anche il quotidiano che ha tirato fuori lo scandalo delle intercettazioni illegali, l’ha tenuto in caldo per anni, aspettando la notizia che l’avrebbe fatto deflagrare e l’avrebbe reso quello che è, uno scandalo internazionale, e infine si è scagliato a corpo morto contro l’impero di Murdoch. E’ il Guardian che ha scoperto che i giornalisti di News of the World avevano hackerato la segreteria telefonica di una ragazzina rapita e poi uccisa; è il Guardian che ha martellato per mesi il premier Cameron e il suo amico-capo della comunicazione Andy Coulson, ex direttore di News of the World finito in galera; è il Guardian che ha trasmesso con indefessa costanza le testimonianze davanti alla commissione Leveson e alla Camera dei Comuni. Senza la tigna del Guardian, lo scandalo delle intercettazioni non avrebbe fatto tanto male ai Murdoch. Ma è anche lo stesso quotidiano da salotto buono che ha più volte dichiarato morto – o fatto dichiarare dai suoi editorialisti interni ed esterni: uno fra tutti, l’ossessionato Michael Wolff – l’impero di Murdoch.

    Ironia della sorte – o forse è sempre per via dello Squalo seduto lì, sulla riva del fiume, ad attendere cadaveri che passano – per giorni è girata voce che il Guardian stesse per chiudere la sua edizione cartacea, come ha appena fatto Newsweek. La notizia, fatta circolare dal Daily Telegraph, quotidiano conservatore non di proprietà di Murdoch, è stata smentita, ma i conti del quotidiano non sono brillanti. Ci sono perdite annuali di 50 milioni di dollari e nonostante i grandi investimenti nel digitale le entrate non sono cresciute in misura consistente. L’harrypotteriano direttore Alan Rusbridger insiste nel dire che la carta non è morta, anzi: ha appena partecipato a un convegno all’interno del Festival di Internazionale, a Ferrara, dal titolo non propizio “Fermate le rotative”, assieme a quel genio del giornalismo moderno che si chiama David Carr, esperto di media del New York Times, ed entrambi hanno ribadito che le rotative non si fermeranno affatto, non nel prossimo futuro almeno. Però la sopravvivenza del Guardian non è garantita.

    Murdoch non è il tipo che gioisce per queste tragedie, lui che è uno dei pochi editori mondiali ancora interessato – innamorato – alla carta stampata. Ma non ha problemi di sopravvivenza, a differenza dei suoi detrattori. Anzi, vuole ancora investire: è circolata voce che abbia allungato gli occhi sul Los Angeles Times, uno dei più grandi quotidiani d’America, e sul Chicago Tribune, entrambi di proprietà di Tribune Co., che è fallita quattro anni fa, è stata salvata ma ancora non ha finito di ripagare i suoi creditori. La notizia è stata smentita in tutta fretta anche perché ci sono molti problemi di antitrust da risolvere prima che Murdoch possa acquisire due nuovi quotidiani che hanno base in città in cui il tycoon già possiede delle emittenti televisive. E’ bastato il rumor perché si scatenassero tutti gli antimurdochiani: come si permette, con tutti i guai che ha, di infilarsi in altre testate? Non gli basta aver stravolto il mercato televisivo con l’ammiraglia conservatrice Fox News (a proposito: alla direzione della tv murdochiana è stato riconfermato Roger Ailes, dopo una lunga contrattazione. Molti speravano che fosse finito il monopolio di Roger, molti hanno raccontato di faide pazzesche tra lui e Murdoch, visto che già precedentemente Ailes è stato la causa della defenestrazione del primo delfino designato, Lachlan Murdoch. Ma dopo tutte le chiacchiere, Roger Ailes è rimasto lì, ci sarà per i prossimi quattro anni almeno, il che vuol dire che si godrà, pure lui, anche la prossima tornata elettorale del 2016, e noi ci divertiremo tantissimo)? Non ci sono state risposte di Rupert Murdoch, neppure via Twitter, dove il magnate è ora impegnato ad attaccare la Federal Reserve e a fare luce sui fatti di Bengasi, in chiave antiobamiana naturalmente. Ma lo sentiamo ridacchiare, mentre legge il New York Times e scrive: che domenica noiosa, non c’è nulla di interessante su questo giornalaccio. Finirà che lo butterà nel fiume, assieme agli altri cadaveri.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi