Pussy jail

Annalena Benini

Nadezhda Tolokonnikova ha ventidue anni e una figlia di quattro, con le trecce bionde e un vestitino rosso, si chiama Gera e in un video guarda una foto delle Pussy Riot con i passamontagna colorati e dice: la mia mamma è qui da qualche parte, la sua maschera ha i buchi per respirare, io però voglio un chewingum. A Washington con il padre, artista e attivista russo, venticinque anni, Gera era seduta accanto a Aung San Suu Kyi e non riusciva a stare ferma, voleva giocare, voleva essere presa in braccio. Maria Alyokhina ha ventiquattro anni e un figlio di cinque che si chiama Filippo.

    Nadezhda Tolokonnikova ha ventidue anni e una figlia di quattro, con le trecce bionde e un vestitino rosso, si chiama Gera e in un video guarda una foto delle Pussy Riot con i passamontagna colorati e dice: la mia mamma è qui da qualche parte, la sua maschera ha i buchi per respirare, io però voglio un chewingum. A Washington con il padre, artista e attivista russo, venticinque anni, Gera era seduta accanto a Aung San Suu Kyi e non riusciva a stare ferma, voleva giocare, voleva essere presa in braccio. Maria Alyokhina ha ventiquattro anni e un figlio di cinque che si chiama Filippo. Nadezhda e Maria non potranno stare accanto ai loro bambini, perché devono scontare la pena per una canzone punk anti Putin (e anti vertici della chiesa ortodossa, che hanno parlato di azione demoniaca) cantata dentro la cattedrale del Cristo redentore di Mosca, “Vergine Maria liberaci da Putin”: sono in carcere dallo scorso marzo, sono state processate e condannate in appello (tranne una di loro, che ha cambiato avvocato, ha ottenuto la libertà condizionata e adesso ha fatto ricorso alla Corte europea per i diritti umani) e sono in viaggio verso i lavori forzati. Verso i gulag di Stalin, nell’autunno del 2012, per una canzone con le calzamaglie colorate e la chitarra, per l’espressione di un pensiero, e per l’inaccettabile oltraggio, anche, di definirsi femministe.

    Avevano chiesto almeno di restare a Mosca, per non separarsi totalmente dai figli, e invece la madre di Gera è stata mandata, dice l’avvocato difensore, in Mordovia, in quella che è definita “l’inferno delle prigioni”, famosa per le violenze sulle donne, il posto dove finì due volte la musa di Boris Pasternak, che ispirò Lara. E la madre di Filippo arriverà ai piedi degli Urali, nella regione di Perm, in un posto dove l’inverno arriva a cinquanta gradi sotto zero, e dove uno di questi campi di lavoro è diventato un museo sulla storia della repressione politica. “Siamo in circostanze disperate, ma non disperiamo”, ha detto Nadezhda Tolokonnikova nella sua autodifesa, la prima volta che le è stato concesso di parlare, dopo cinque mesi di prigionia. Ha citato Solgenitsin: “Credo che alla fine la parola romperà il cemento”. “Abbiamo teso le nostre mani verso le persone che, per qualche ragione, ci considerano i loro nemici, e loro hanno sputato sulle nostre mani aperte. ‘Non siete sincere’, ci hanno detto. Peccato. Non giudicateci in base ai vostri parametri di comportamento. Abbiamo parlato con sincerità, come facciamo sempre, abbiamo detto quello che pensavamo. Siamo state incredibilmente infantili, ingenue nella nostra verità, ma comunque non ci pentiamo delle nostre parole, comprese le parole che abbiamo pronunciato quel giorno”. In quelle autodifese ci sono considerazioni profonde, scuse che non sono state accettate, e soprattutto nessun odio. Perfino nelle valutazioni psicologiche figurano parole come: giustizia, rispetto reciproco, umanità, uguaglianza e libertà.

    La Russia ha permesso che due ventenni, due madri di figli piccoli, ragazze che chiedono solo che le loro parole siano ascoltate, vengano “rieducate” nei campi di lavoro a centinaia di chilometri dai loro bambini. In posti dove le donne devono tenere i capelli corti per non sprecare acqua a lavarli. “Potremmo finire in una prigione, ma non ci ritengo sconfitte. Come i dissidenti non sono stati sconfitti, anche se sono scomparsi nei manicomi e nelle prigioni”. Ora è successo davvero, e loro non sono più le Pussy Riot, ma due dissidenti.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.