Ma anche tu hai fallito?/4

Cari rottamatori immaginari, il neoliberismo fa fallire anche voi

Nicoletta Tiliacos

La sociologa belga Bernadette Bawin-Legros, in un libro del 2006 intitolato “Enfants de soixante-huitards. Une génération désenchantée”, raccontava lo smarrimento dei trentenni, figli della generazione “lirica” (quella del Sessantotto, appunto), “in rapporto alla quale si è giocata e continua a giocarsi la sorte di tutte le fasce d’età, dalle più giovani alle più anziane”. E’ così anche oggi che imperversa l’accusa di fallimento rivolta a quella generazione dai trenta-quarantenni, ormai più insofferenti che smarriti.

    Roma. La sociologa belga Bernadette Bawin-Legros, in un libro del 2006 intitolato “Enfants de soixante-huitards. Une génération désenchantée”, raccontava lo smarrimento dei trentenni, figli della generazione “lirica” (quella del Sessantotto, appunto), “in rapporto alla quale si è giocata e continua a giocarsi la sorte di tutte le fasce d’età, dalle più giovani alle più anziane”. E’ così anche oggi che imperversa l’accusa di fallimento rivolta a quella generazione dai trenta-quarantenni, ormai più insofferenti che smarriti. Ida Dominijanni, saggista femminista e giornalista del Manifesto, dice che “la polemica con la nostra classe di età non è solo un fenomeno italiano, è molto forte anche là dove i sessantenni hanno vinto e governano. Obama, per esempio, durante la prima campagna elettorale fu avvantaggiato dal porsi come ‘fratello minore’ dei baby boomer rappresentati da Hillary Clinton. Il fatto è che sulla generazione del Sessantotto e seguenti grava un immaginario molto denso, perfino non privo di una qualche comprensibile invidia: a torto o a ragione, siamo visti come coloro che hanno avuto la fortuna di vivere, dall’adolescenza in poi, l’epoca felice del progresso e dei diritti. Ma qui cominciano i problemi, perché il percorso è stato ricco quanto faticoso, per svariati motivi. Prima di tutto, è stato un percorso diviso. La generazione di cui parliamo è stata divisa dal taglio femminista, non dimentichiamolo”.

    Pur tenendo conto di questo, Ida Dominijanni non vuol sentir parlare di generazione fallita: “Diffido della misurazione dei fallimenti, in particolare generazionali. Potrei dire che tutti abbiamo perso contro il neoliberismo, che ha distrutto il liberalismo classico così come la socialdemocrazia, e ha sussunto, impossessandosene e cambiandone il segno, le istanze libertarie del Sessantotto e del femminismo, traducendo la libertà in libertà di mercato, il desiderio in godimento e via di questo passo. Dovremmo stare attenti al metro che usiamo. La generazione in questione ha provato a mettere in discussione l’idea di che cosa fosse la politica e l’idea di potere (soprattutto qui torna in campo la cesura femminista), ed è stata la prima a tentare rivoluzioni che non avessero per obiettivo primario la conquista del potere. Di conseguenza non è giusto giudicarla solo da come quel potere l’ha preso o meno, o l’ha gestito o meno. E’ evidente che in Italia qualcosa si è inceppato, in un ricambio generazionale che non c’è stato, ma trovo inconcludente la battaglia per la rottamazione, che non è in mano a Renzi o a chissà chi, ma al biocapitalismo contemporaneo. Negli ospedali si rottamano i medici, nella scuola i migliori docenti, nei giornali ti spediscono in prepensionamento appena possono con il risultato che dalle redazioni spariscono tutti quelli che hanno una memoria di questo paese un po’ più antica del berlusconismo. Il gioco non è in mano ai giovani politici maschi ruspanti – su questo i rottamatori si illudono – ma a un sistema economico che ci manda a casa per non sostituirci con i giovani. Ogni rinnovamento, invece, passa per contrasti e alleanze fra le generazioni. Anche noi, naturalmente, contestavamo i padri, non abbiamo fatto altro che contestarli: ma all’interno di un dispositivo edipico che manteneva un vocabolario comune. Oggi, in tempi che gli psicoanalisti definiscono post edipici, il gioco si fa più pericoloso, punta all’annientamento personale e al rifiuto di qualunque genealogia o eredità. Del resto, già la Prima Repubblica è finita con il nuovismo e abbiamo visto come è andata”.

    Ida Dominijanni aggiunge che “stiamo parlando di una generazione che ha allargato smisuratamente l’ambito della trasformazione nell’arte, nella letteratura, nella filosofia, e ha modificato le relazioni, la cultura, la sensibilità. Come si valuta, il successo o il fallimento di questo tipo di trasformazione? Un esempio pop. Ieri guardavo il video di ‘Space Oddity’, la canzone di David Bowie che Bertolucci ha ritirato fuori nel suo ultimo film. Bowie lo girò nel 1969, quando aveva 22 anni, con una capacità di anticipazione incredibile su certe trasformazioni successive del gusto e dell’estetica rock. Lo rottamiamo per limiti d’età? E anche se vogliamo limitare lo sguardo alla politica, va detto che la stessa decostruzione da noi operata ne ha mostrato tutte le magagne, anche se poi la politica ci ha messo molto del suo per autodistruggersi. E allora non è il fallimento di una generazione, è la fine della politica moderna, o quantomeno di quella novecentesca”. Errori ne sono certamente stati fatti, aggiunge Ida Dominijanni, “e penso all’atteggiamento anti istituzionale che ha reso difficile ai movimenti critici creare proprie istituzioni, al conseguente deficit di trasmissione storica, all’ambivalenza, all’incertezza, dall’indecisione, al restare sempre un po’ a metà – pensiamo ai post Pci – tra innovazione e tradizione. Ma non lo chiamo fallimento. Che uno come Obama sia figlio, diretto o indiretto, del cambiamento degli anni Sessanta-Settanta, è chiarissimo. Lui i baby boomer non li ha rottamati, se ne dichiara espressamente erede”.

    Ma in Italia? “Il nostro è stato un paese permeato di politica, dove la crisi dello stato e della politica ha avuto conseguenze più devastanti. Lì dove c’è meno politica e più società civile la società è nel complesso più vitale, più autonoma. In Italia la distruzione e la distruttività della politica si sono sentite di più, e sulla generazione di cui stiamo parlando gravano la crisi della sinistra e la depressione dei suoi luoghi di aggregazione collettiva, che pesa come un macigno sulle vite individuali. Per questo la crisi della politica è diventata anche crisi di relazioni, di identità. Una crisi depressiva, una specie di lutto interminabile e ormai insopportabile. Vorrei anche aggiungere che l’Italia è un paese che soffre assai di ciò che nei paesi anglosassoni si chiama ‘age discrimination’. E’ il senso comune che ci rimanda un’idea di invecchiamento che non ci si addice per niente… c’è una contraddizione molto forte tra la vitalità, la curiosità e l’apertura che resta in questa generazione e il modo in cui viene costruita oggi la guerra generazionale, l’archiviazione delle esperienze, la messa in mora, la rottamazione”.