Parigi nazionalizza Peugeot e isola Marchionne in Europa
La guerra dell’auto europea è finalmente scoppiata. E Sergio Marchionne, a giudicare dai movimenti dei vari schieramenti, rischia di affrontarla in solitudine. La Francia socialista non ha perso il vizio dirigista. Ieri il primo ministro Jean-Marc Ayrault ha annunciato il piano di aiuti a favore di Peugeot. Il braccio finanziario di Peugeot e Citroën riceverà finanziamenti per 5-7 miliardi di euro dallo stato, altrettanti da un pool di banche.
Milano. La guerra dell’auto europea è finalmente scoppiata. E Sergio Marchionne, a giudicare dai movimenti dei vari schieramenti, rischia di affrontarla in solitudine. La Francia socialista non ha perso il vizio dirigista. Ieri il primo ministro Jean-Marc Ayrault ha annunciato il piano di aiuti a favore di Peugeot. Il braccio finanziario di Peugeot e Citroën riceverà finanziamenti per 5-7 miliardi di euro dallo stato, altrettanti da un pool di banche. Ma, ha ammonito lo stesso Ayrault, non sarà un sostegno gratuito: Psa dovrà accogliere nel consiglio di amministrazione un rappresentante dello stato e un altro designato dai lavoratori. Il gruppo privato (ma lo è ancora?) potrà così procedere con spalle più solide al fianco di Opel – questa l’altra notizia di ieri –, la controllata di General Motors che dal 1999 a oggi ha pesato sui conti del gruppo di Detroit per la bellezza di 17 miliardi. Un salasso che i soci di Gm – a partire dal governo americano che non è affatto rientrato, a differenza che in Chrysler, dei debiti per salvare la più grande delle “Big Three” – vogliono fermare una volta per tutte. Ma la strada scelta da Peugeot e Gm non passa, come auspicava Marchionne, da una riduzione concertata della capacità produttiva dei produttori europei, bensì da un nuovo piano industriale d’attacco. Certo, il gruppo francese chiuderà il sito di Aulnay, mentre Gm spera di strappare alla cancelliera tedesca Angela Merkel il permesso di chiudere Bochum, la culla di Opel. Ma la “polpa” dell’accordo tra una società in cui fa il suo ingresso lo stato francese e un’altra in cui Washington è azionista rilevante, sta nello sviluppo di qui al 2016 di quattro piattaforme comuni. Non sempre (anzi, di rado) queste imprese sono baciate dal successo. Ma, in ogni caso, la coppia franco-americana promette di sfornare vetture compatte e Suv, utilitarie e small car a basse emissioni che renderanno ancora più affollato, competitivo e meno redditizio il mercato dell’auto europea. Una scelta che per Marchionne ha il sapore del suicidio collettivo.
Ma l’ad di Fiat, oltre che di Chrysler, non può seguire nemmeno la scelta di Ford che, in vista della presentazione dei risultati di bilancio, ha già presentato la sua ricetta per la consociata europea: la chiusura dell’impianto di Genk, 4.300 dipendenti più indotto di altri 15 mila, numeri che fanno della fabbrica della Mondeo (che d’ora in poi sarà prodotta solo a Valencia) la più importante presenza industriale belga. Fiat, al contrario, martedì prossimo si presenterà all’incontro con i sindacati con un piano, basato essenzialmente sulla produzione di motori destinati agli Stati Uniti, che dovrebbe consentire al Lingotto di traghettare la Fiat italiana verso anni migliori. Ma nel frattempo i numeri spingono la Fiat in altre direzioni. I risultati che il cda approverà martedì confermeranno una realtà a due facce: i profitti di Chrylser e della Fiat brasiliana, 900 milioni nel trimestre, saranno ancora in grado di compensare le perdite dell’Europa (stima di 700 milioni). Ma i quattrini in arrivo da Betìm e da Detroit servono a Marchionne per ben altre imprese, a partire dall’avvio della produzione di Jeep in Cina, un mercato che può assorbire mezzo milione di vetture ad alta profittabilità. Per questo Marchionne ha inseguito e, forse insegue ancora, un possibile armistizio in Europa. Ma per ora paga di più la strategia del “nemico” Martin Winterkorn, il generale che muove le dieci marche del gruppo Volkswagen: a differenza dei concorrenti, il colosso tedesco continua a macinare utili: 20,1 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2012. Certo, anche a Wolfsburg si sente l’eco della crisi. Ma il colosso tedesco sa di poter disporre di più munizioni della concorrenza: ha radici ben piantate in tutte le aree dell’economia globale; opera con tassi di interesse che rasentano lo zero; vanta relazioni industriali eccellenti. E, soprattutto, a Wolfsburg, sono convinti che sia più facile metter d’accordo i governi europei sull’unione bancaria che sui sacrifici per garantire un futuro a tutta l’auto europea, anche a quella che non parla tedesco.
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