Ci vuole Melville per smontare il nichilismo di David Foster Wallace
Ho sempre avuto l’impressione, anzi la certezza, che un gruppo di turisti americani di fronte al “Davide” di Michelangelo vedesse qualcosa che li riguarda e che noi europei non vediamo più. L’umanesimo americano, il culto americano dell’eccezionalità e del genio, l’individualismo superlativo, in quel famoso e misterioso paese, un tempo così anomalo e oggi così esemplare nella sua epica di nazione-culmine dell’occidente, fanno pensare alla fusione di gigantismo umanistico e visione biblica, che forse nessuno, in Europa, ha messo in scena come Michelangelo.
Ho sempre avuto l’impressione, anzi la certezza, che un gruppo di turisti americani di fronte al “Davide” di Michelangelo vedesse qualcosa che li riguarda e che noi europei non vediamo più. L’umanesimo americano, il culto americano dell’eccezionalità e del genio, l’individualismo superlativo, in quel famoso e misterioso paese, un tempo così anomalo e oggi così esemplare nella sua epica di nazione-culmine dell’occidente, fanno pensare alla fusione di gigantismo umanistico e visione biblica, che forse nessuno, in Europa, ha messo in scena come Michelangelo. E’ michelangiolesca anche la critica letteraria di Harold Bloom, che prima ha stabilito il Canone della letteratura occidentale, come fosse lui stesso un moderno legislatore biblico alla guida del popolo di Dio, e più tardi ha dedicato un volume, ancora più gigantesco, al “Genio”.
Ma così sto scoprendo l’America. Il trascendentalismo e il rinascimento americano dell’Ottocento, a cui appartengono Emerson, Whitman e Melville, contiene in sé questa sintesi di orgoglio umanistico e di devozione alla Bibbia. Emerson dedicò il suo libro più famoso agli “uomini rappresentativi”, ai geni esemplari (Platone, Montaigne, Shakespeare, Goethe, Napoleone). Whitman giganteggia a sua volta nell’abbraccio alla totalità democratica americana, nella quale, idealmente, l’individuo e la folla non si contraddicono, perché la folla non è che un insieme di individui in armonia e competizione fra loro. Melville vede l’altra faccia della realtà: la Balena supera l’uomo, è più forte, più antica, più terribile, bianca e senza volto, è la realtà naturale e divina, indomabile e inconoscibile, che insegna all’uomo quanto sia perversa la piccolezza delle sue passioni e dei suoi propositi.
Devo fare fra me e me ragionamenti smodati e approssimativi come questi, per spiegarmi il perché e il come di un libro appassionante e stranamente ingenuo (appassionante perché ingenuo) come quello di Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly “Ogni cosa risplende. I classici e il senso dell’esistenza” (Einaudi, 218 pp., 22 euro).
Nella sua introduzione, Gianni Vattimo si chiede se non si tratti di un libro divulgativo, dato l’uso che fa di nozioni elementari di storia della cultura. Più precisamente direi che è un libro pedagogico, un libro per far discutere gli studenti sul senso della vita, sulle alternative che pone e sulle scelte a cui costringe. Come vivere? Cosa aspettarsi dalla vita? Come affrontarla? In che cosa credere? Per rispondere a queste domande, i due filosofi non tremano davanti a nulla: ripercorrono la storia della cultura occidentale da Omero a David Foster Wallace, da Eschilo, sant’Agostino, Dante, Lutero, Cartesio, Kant fino a Melville, grande maestro di vita, e fino alle filosofie implicite nelle performance dei grandi atleti contemporanei e degli idoli della pop music.
Quando gli autori, rileggendo “Moby Dick”, ragionano sulle caratteristiche dei due opposti protagonisti, Ismaele e Achab, dietro a questo contrasto sembra trasparire quello politico fra repubblicani e democratici: fra chi insegue il mostro Balena bianca per vendicarsi e chi lo studia con stupore e sgomento come una manifestazione terrifica del Dio imperscrutabile.
La lotta di Dreyfus e Kelly è contro il nichilismo, che dalle sue radici più remote arriva all’ossessiva ansia da prestazione letteraria di Foster Wallace. Il libro si conclude con una proposta sincretistica, fra politeismo omerico, agàpe cristiana, animismo, e magari tecnica zen dell’afferrare l’attimo. E’ scoraggiante però che si sia dovuto ricorrere a Omero e Melville per confutare lo stile di vita, ossessivo fino al suicidio, di Foster Wallace: il suo bisogno di trovare nell’individuo un significato senza presupposti né fondamenti esterni “lo pone nella posizione tradizionalmente riservata a Dio, una posizione che anche Nietzsche condivide (…) l’autonomia individuale rischia allora di sconfinare nella malvagità e di risolversi in tragedia, o quanto meno ispirare il nichilismo e spingere al suicidio”.
Il compito morale dei due bravi filosofi si complica ulteriormente quando arriviamo all’attuale alleanza fra nichilismo e sovrapproduzione tecnologica: “I progressi della tecnologia hanno diminuito nella vita contemporanea l’importanza delle capacità specifiche. Anzi il principale obiettivo della tecnologia è rendere accessibile a tutti ogni settore, indipendentemente dalle capacità che si hanno. ‘Anche un bambino può farlo!’ è il mantra dell’èra tecnologica. (…) La tecnologia migliora le nostre vite rendendo facili le cose difficili. Questo è l’assioma centrale del mondo contemporaneo (…). Poiché annulla la necessità di sviluppare capacità concrete, la tecnologia appiattisce e impoverisce la vita umana”.
Purtroppo, se il nemico è la marcia trionfale delle tecnologie, temo che non basteranno a salvarci né Omero né Melville.
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