In carcere con Cuffaro. Un diario

Stefano Di Michele

Domani la Sicilia vota. Ma c’è un vuoto, nella Sicilia che dalle urne aspetta, dice, la salvezza; e sa, e c’è pure chi lo dice, che salvezza non ci sarà. Il vuoto è quello rappresentato da Totò Cuffaro, l’ex potentissimo presidente a Palazzo d’Orleans, l’uomo che adesso – molti dimagrito, lo sguardo forse più profondo, certo più oscuro – trascina le sue giornate in una cella del carcere di Rebibbia, periferia di Roma.

    Domani la Sicilia vota. Ma c’è un vuoto, nella Sicilia che dalle urne aspetta, dice, la salvezza; e sa, e c’è pure chi lo dice, che salvezza non ci sarà. Il vuoto è quello rappresentato da Totò Cuffaro, l’ex potentissimo presidente a Palazzo d’Orleans, l’uomo che adesso – molti dimagrito, lo sguardo forse più profondo, certo più oscuro – trascina le sue giornate in una cella del carcere di Rebibbia, periferia di Roma. Ma è come se il suo spirito, il suo fantasma, inseguisse i sogni e i propositi (e gli incubi) di molti dei contendenti. Sicilia che pare cambiare, senza nulla mutare: e gli antichi alleati di Cuffaro alleati sono tra di loro, pur se una volta si detestavano, e il detestarsi è sentimento di forte resistenza, e l’odio è stato evocato. “Abbattere il cuffarismo!”, s’ode ancora urlare nelle piazze siciliane – abbattere un’idea, un sospetto, una “mascariata” per l’avversario (e più spesso per l’alleato), mentre l’uomo che al cuffarismo diede nome e pratica e sangue, e ne trasse voti e potere e ammirazione che ora gli stessi ammiratori declinano in studiata repulsione, spartisce una cella con altri condannati, osserva nere cornacchie che una volta era candidi uccelli, e farà certo paragoni chissà quanto azzardati tra coloro che come candidi uccelli al suo palazzo si presentavano e ora come neri volatili s’aggirano evocando il suo fantasma. 

    Siamo andati giovedì mattina, io e Peppino Sottile – che di faccende siciliane ha scienza e conoscenza – a trovare Totò Cuffaro in carcere. Rebibbia è lontana dal centro di Roma, vicino c’è un posto che si chiama Casal dei Pazzi (e Sciascia ne avrebbe certo cavata qualche non infondata allusione), e il tassista (il tassista romano è orgicamente portato alla confidenza con il cliente a bordo) ne racconta storia e controstoria, “qui, dotto’, ce veniva sempre Pasolini!”, e figurarsi gli anni, i decenni andati, i secoli scavalcati. E’ piatta, Rebibbia, nella piatta periferia romana, poco inquisitoria pare, ma sempre galera è. Ci sono gruppi di zingari che aspettano di incontrare parenti in cella, c’è un via vai di avvocati. Via Majetti, 70: le guardie sono gentile, sorridenti, persino spiritose sull’entrare sicuro e sulla più incerta possibilità di recuperare borse e giornali all’uscita. Possiamo tenere solo dei fogli e delle penne. Cellulari?, vogliono sapere. Registratori?, chiedono pure. Un garbato  ispettore ci scorta fin nella stanza dove Cuffaro ci aspetta, e resta con noi per tutta la durata del colloquio. Cuffaro – per chi ha in mente il satollo presidente di stampo democristian-berlusconiano del reame siciliano, quello che vagava con vassoi di cannoli generosamente distribuiti, a volte (spesso) inopportunamente distribuiti  – è assolutamente diverso: ha perso molti chili, e il sorriso che sgranava in faccia ad ogni interlocutore si è fatto più trattenuto, più riflessivo: né voti ci sono più da conquistare, né visi dove lasciare il vasa-vasa a sigillo della promessa, della certezza, della speranza. 

    Ha lunghi silenzi, adesso, Cuffaro. Ha in mano un block notes e una matita, ma non scriverà una parola per tutta la durata del colloquio. Quest’uomo dall’aria gentile, sfregiato da una condanna che lo lega a certi favori ai mafiosi, è il paradigma perfetto della Sicilia che c’è stata e della Sicilia che poi verrà: così che per tanti baci ricevuti altrettanti ne ha dati, e in Sicilia il baciare – attendersi il bacio, il bacio rendere – è pratica che Totò quasi istituzionalizzò, ma che qualunque altro suo successore farà propria: sia a voler fortemente con quel contatto il nuovo contratto politico ratificare, sia a dover vincere personale ripugnanza epidermica per supposta, acclarata convenienza nell’urna. E così, mentre dietro le sbarre Totò Vasa Vasa trova conforto in Boezio e in Thomas Mann, nella sua isola il vasa-vasa è già ripreso, e ora si stampa (metaforicamente: ma nulla muta, il bacio resta, anche se il solo pensiero sfiora la guancia) magari sulla barba di Grillo, dalle acque dello Stretto esodato, come una volta fu per Pannella o per Almirante (era la “nera” Catania “la luce dei miei occhi”). Bacia sempre, la Sicilia, così che non possa alcuno dire che l’atto non tanto di sottomissione al potere, quanto di riconoscimento del potere, non sia compiuto. Ha pure dei momenti di commozione, Totò Cuffaro, al primo piano di una stanza dove di solito si vanno a sistemare magistrati che indagano e possibili indagati in cella. Gli saetta un’antica luce nello sguardo, quando si comincia a parlare delle storie della Sicilia, di quegli uomini che lui ha così ben conosciuto, e ora con lo sguardo lontano come su una scacchiera vede – ognuno dove si trova, ognuno da dove viene, forse anche quando ognuno sarà rovesciato, e da re andrà sotto scacco, e da re sconterà l’inattesa furia di un pedone. Ma la politica, per Cuffaro, adesso è passione da distillare in segreto, come un alchimista che mischia e cerca e affonda nel nulla la sua scoperta: la sua condanna gliela vieta, non voterà e non potrà essere votato, l’uomo che sui voti una piramide e una lunga gloria di almeno dieci anni eresse. 

    La voce di Cuffaro è importante perché da quella cella ancora vede e, probabilmente, ancora sa. Dentro la sua stanza con le sbarre, mentre legge i fondi del caffè del rebus siciliano, è come Holmes al 221/b di  Baker Street: chiudere gli occhi e quasi miracolosamente veder scorrere il rullo degli eventi. Perché del passato sa tutto, e del passato la Sicilia non si libera mai. Sono solo passaggi, nient’altro: le iene che prendono il posto dei Gattopardi, sono le nere cornacchie che sostituiscono bianchi uccelli maledetti da un dio. E’ tutta infinita metafora, è tutto un inseguirsi per ritornare, come se fossero quattro cantoni i tre angoli della geometrica Sicilia. E’ un potente che patisce in modo strano, quello che troverete nelle pagine successive del Foglio. Che è sorprendentemente mutato – forzatamente mutato, ovviamente. Reso migliore? Peggiore? Uguale? Identica la domanda che si può fare a quelli che possono andare ancora liberi in piazza a comiziare. E comunque, a me e a Peppino, alla fine Totò ha concesso due baci e una lacrima.