Il candore delle cornacchie
"Voi conoscete la storia della cornacchia? Sapete perché una volta era bianca e bellissima e adesso è nera e sospettosa?”. Prati e alberi intorno al nuovo complesso carcerario di Rebibbia sono pieni di cornacchie – che con diffidenza osservano gli umani, se ne tengono a distanza, ne scrutano con guardingo fremito l’avvicinarsi. Dalla finestra della sua cella il detenuto Cuffaro Salvatore detto Totò – detto di più: Totò o Vasa Vasa – guarda le cornacchie.
"Voi conoscete la storia della cornacchia? Sapete perché una volta era bianca e bellissima e adesso è nera e sospettosa?”. Prati e alberi intorno al nuovo complesso carcerario di Rebibbia sono pieni di cornacchie – che con diffidenza osservano gli umani, se ne tengono a distanza, ne scrutano con guardingo fremito l’avvicinarsi. Dalla finestra della sua cella il detenuto Cuffaro Salvatore detto Totò – detto di più: Totò o Vasa Vasa – guarda le cornacchie. “E’ tutta colpa di Apollo…”, dice. Ma ad Apollo e alle cornacchie e a un’antichissima storia di tradimenti (ché sempre una storia di tradimenti s’incontra, tra gli dei esattamente come tra gli uomini) torneremo più avanti – perché il volo di quelle cornacchie ha prima occupato l’orizzonte scomposto dalle sbarre e poi la mente di Totò. Ha un maglione blu, un block notes e una matita, l’ex presidente della regione Sicilia. In cella di molte cose si scopre un uso diverso – perciò la matita e non la biro, perché Totò scrive di notte, ché di notte dorme poco Totò – due ore appena, forse tre, e del resto non più di quattro prima, quando regnava dalla magnificenza di Palazzo d’Orleans, dentro uno sfavillìo di barocco e di oriente, come ora dentro la cella che con altri tre detenuti divide. E la notte, quando pure le cornacchie il loro nero nel nero del buio silenzioso cacciano, Totò scrive: con un cilindro di cartone di un vecchio rotolo di carta igienica occulta e dirige la luce di una lampada perché non colpisca il sonno dei compagni di cella, sdraiato sulla branda, con lo sguardo che corre lungo quel sottile filo luminoso, scrive. Ma appunto, ecco la matita: perché la biro, dopo un po’, in quella posizione smette di funzionare, la matita no, non lascia dietro nemmeno una virgola, non si arresta mai. “Perciò, ecco la mia matita, sempre con me”.
Oggi si vota, in Sicilia. L’antica sua corte è ancora tutta lì – tra piazze e speranze e giochi di specchi dove l’antica arguzia si mischia e si scioglie in nuove furbizie – che cerca, che promette, che implora. E’ lì Lombardo, è lì Micciché – che con Totò Vasa Vasa “dante causa” governarono, e che molto e ferocemente si detestarono (si detestano) e che entrambi da Totò hanno preso distanza e opposto pietrosi silenzi e mostrato profonde dimenticanze, “non riesco a capire cosa oggi li tenga insieme, è la risposta opposta a quella che avrebbero dovuto dare”. E niente del nuovo (simile all’antico) mischiare e rimestare della politica siciliana pare convincere l’antico dominus che fissa la punta della sua matita: quelli dell’Udc e del Pd con Crocetta, Micciché con il vecchio disamore. E forse allora meglio, “pur se non condivido”, stando alla logica, stando ai “valori” – circola ancora, anche qui nelle stanze del nuovo complesso di Rebibbia, questa parola inquieta e inquietante – meglio comunque di quelli Orlando e Vendola e Di Pietro, e di là quelli che stanno con l’ex missino Musumeci, “pur se c’è stata una forzatura sulla persona, un rappresentante troppo spostato a destra”. Alla fine, questo Pdl siciliano di molti trionfi e di molti sprofondi, ha sempre dovuto scegliere un “Papa straniero” per il seggio più alto: così fu Totò, quando fu, così è stato Lombardo, così magari sarà Musumeci. Totò sorride: “Più che Papa straniero, adesso siamo al Papa nero”. Dice che finirà così, colui che di tutti questi giochi distribuì le carte e fu mazziere: “Molti non andranno a votare, molti sceglieranno la protesta, molti non sanno cosa votare”. Racconta Micciché di se stesso: “So di essere la persona più odiata da Alfano. Cosa peraltro ricambiata. Ha avuto dei comportamenti da animale…”. L’odio, Cuffaro, l’odio – lo pratica, da dentro la sua cella? Ne prova per i suoi antichi sostenitori? “L’odio… Vi racconto una cosa. Andai a trovare Nino Gullotti, un grande maestro per me, pochi giorni prima che morisse… Andai per lamentarmi, con rancore, anche, di un presidente famoso per essere stato praticamente tutto senza avere nemmeno un voto. Lui mi guardò, stava malissimo… Giovane amico, mi disse – allora ero giovane anch’io, adesso, invece… – ricorda che in politica è già difficile avere sentimenti… e qui fece una lunghissima pausa, quasi non avesse più fiato, poi concluse: figurarsi i risentimenti… Ciò valeva ieri, e vale soprattutto adesso”. Mentre qui dentro Totò ricorda – e volano le oscure creature nel cielo di fronte – e il suo è un vagare tra le cose fatte e l’aggirarsi con la memoria tra rigassificatori e termovalorizzatori, poi uno scuotere mesto della testa. “Di Lombardo accetto il tradimento politico, quello va messo nel conto, è fuori discussione, ma quello che proprio mi ha ferito è il fattore umano, il tradimento dell’amicizia. Mi sono sforzato per capire, e non ho capito…”. Faceva molto, Cuffaro, quando era presidente – pure Micciché lo ricorda e glielo riconosce. Ma poi, dice così, si circondò di “gente terrificante”. Di chi si era dunque circondato? “Ho fatto mille errori, per i tanti errori fatti meriterei di pagare. Ma come dice l’Alfieri nel “Saul”, sol chi non fa non fa uno sbaglio. Ho certo errato, mi sarò anche circondato di persone sbagliate, ma terrificanti, ecco, mi pare eccessivo… Io rispetto le sentenze della magistratura fino all’ultimo giorno, perché qui mi faranno fare fino all’ultimo giorno. Ma vedete, giusta o sbagliata che sia, una cosa è certa: che io, culturalmente prima ancora che politicamente, non ho voluto favorire la mafia…”. La mafia, ecco, la mafia: specchio e insieme pantano della Sicilia e della sicilianitudine – e a volte le cose sembrano chiare, mentre più chiare, invece, risultano alla fine quelle che si confondono nella melma del pantano. Sospiro di Cuffaro: “Questa spugna inzuppata e imbevuta, questo humus, questo concime… Non è che non ci sia il fenomeno, per carità, in Sicilia c’è…”.
E’ tornato nel suo paese, a Raffadali, qualche giorno fa, Totò Cuffaro – a visitare suo padre gravemente malato, ed è stato sorprendentemente accolto dagli applausi per strada. Ha detto una donna, agli agenti che lo accompagnavano: “Trattatelo bene, è la storia della Sicilia”. Cuffaro – l’antico potente che qui dentro ha scoperto la superiorità della matita sulla penna – ha un moto di orgoglio. Misurato, non baldanzoso, piuttosto sussurrato: “Ho trovato due persone, su delle sedie a rotelle, che mi aspettavano dietro casa per salutarmi. Sono cose che aiutano ad affrontare il carcere, danno la possibilità di resistere”. Diecimila lettere dice di aver ricevuto, da quando ha varcato la soglia della sua cella. “Trenta, quaranta lettere al giorno. C’è una signora, si chiama Antonella, che mi manda una cartolina tutti i giorni, ma davvero tutti. Ormai siamo già a quota settecento. ‘Le terrò compagnia ogni giorno del suo tempo privato della libertà’, mi disse. E continua a scrivere: dalla Norvegia, dalla Germania, persino dalla Cina…”. Non è umiliato, Cuffaro, dalla galera. Non si lamenta, non piagnucola, non professa innocenza ormai inutile da buttare sul piatto della bilancia della giustizia. Ci furono i giorni un po’ matti, un po’ sconsiderati, di vassoi di cannoli grandi come pescherecci che impropriamente vagavano – per imprudenti e improvvidi festeggiamenti. Tutta la frenesia di un’esistenza, tutto il vasa-vasa su mille e mille facce, tutto quel farsi notte e quasi l’alba nell’ufficio presidenziale, “ricevevo persone fino alle due, alle tre di notte, magari gente che aspettava dalle cinque del pomeriggio. E a volte entravano, e non chiedevano niente. E io dicevo: ma allora perché non andate a casa, e uno mi rispose: ma tu vuoi privarmi del piacere di essere entrato nella stanza del presidente della regione e di aver preso il caffè con lui? La gente ha bisogno di sentire certe cose, era un bellissimo sacrificio, un arricchimento umano, e quei cinque minuti diventavano magari il ricordo di tutta la loro vita…”. O era solo il cuffarismo, presidente. Parola destinata alla dannazione – e Cuffaro lo sa. Al rogo. A farsi cenere. E cenere, poi, da disperdere per sempre nel vento. Che non ne resti traccia, che non un briciolo ne resti – affogata nell’altra cenere dell’Etna, spersa nel mare insidioso. Ancora adesso, in Sicilia, gli uni con gli altri, candidati di destra e candidati di sinistra e candidati di non si sa cosa, si rimpallano il peccato originale del cuffarismo, della clientela… “…o della capacità di stare in mezzo alla gente, era anche questo” – ma che sempre sia dannato chi il cuffarismo praticò e chi dal cuffarismo fu praticato, “abbasso il cuffarismo!”, si urla lo stesso e sempre nelle piazze – mentre Cuffaro Salvatore detto Totò detto Vasa Vasa, è detenuto a Rebibbia da due anni, fine pena 2016.
Su ogni cosa che ha perso – il potere, i privilegi, il barocchismo da vicereame spagnolesco – dentro questa stanza di sbarre alle finestre e di porte sbarrate Totò fa spallucce. Come quando apre il biglietto di un amico, e prima fissa il gentile ispettore della penitenziaria che ci accompagna e chiede “scusi, lo posso tenere?” – ecco, pare seguire un nuovo ritmo, ben oltre l’obbligo delle regole imposte. Osserva con attenzione oltre il tavolo: “Se potessi tornare a far politica…”. Non potrà mai più tornare a fare politica, Totò Cuffaro – e forse gli sopravviverà il cuffarismo, e per qualcuno sarà specchio dove resterà imprigionato, per altri pantano dove come rospo o rana andrà a confondersi. Come essere cesarista, come essere felliniano, come essere arabo (“lo sai che il mio cognome, Cuffaro, ha origini arabe?”) o normanno o mastro-don-gesualdiano, così sarà, il cuffariano che verrà – ché sempre, inevitabilmente verrà. “Non posso più fare politica, mi hanno interdetto. Non posso più. E’ come una pena dantesca, per me. Non è possibile, lo so, ma se tornassi a fare politica rifarei la politica esattamente come l’ho fatta fino al momento del carcere. Per gli altri. Con il cuffarismo che chiamano spregevole, bieco, con l’abbraccio e il bacio… Certo, salvo tutti gli errori che ho fatto…”. E’ il momento del contrappasso, forse uno dei rari momenti di forte malinconia nello sguardo dell’ex presidente di Palazzo d’Orleans. “La politica era tutto per me, non potrò più fare politica”, si ripete. “Non potrò votare, né farmi votare… Però non mi sento sfortunato, credetemi…”. E cosa farà, uscito da qui, tra quattro anni? “L’agricoltore…”.
Totò che sempre la Madonna pregava – e che sempre la Madonna prega, e qui dentro, dice, molto pensa e ancor di più prega – pare in certi momenti aver afferrato, con lo sguardo sulle cornacchie, oltre le sbarre, al filo di luce che cala soffuso dal cilindro del rotolo di carta igienica, qualcosa di certe filosofie orientali, zen, buddhiste: acquisire l’essenziale nel momento della massima spoliazione. “Io so che ho un limite alla mia pena, ho chi mi aspetta, chi mi viene a trovare, chi mi scrive, chi mi pensa… Qui dentro è pieno di gente che non ha nessuno, che nessuno viene a trovare per mesi o per anni, gente che nessuno viene a trovare mai, gente che ha scritto ‘fine pena mai’ nel suo destino. Perciò ho il dovere, oltre che il diritto, di guardare al futuro…”. E’ entrato pieno di paura, di tremori – il cuore a mille, il potente denudato e buttato nell’arena tra le bestie feroci – Totò Cuffaro qui a Rebibbia. “Sono entrato con il terrore, davvero. Sapete, quelle storie dei detenuti con il coltello, degli agenti con il manganello, di certe forme di violenza… E invece sono stato trattato benissimo: gli agenti sono i nostri unici amici, se non ci sono loro molte cose non le possiamo fare, con i detenuti c’è solidarietà, qui è tutto tranquillo, tutto così strano rispetto a fuori…”. Quasi più tranquillo e rassicurante qui che a Palazzo dei Normanni… Lampo nello sguardo, Cuffaro, ricaccia la stupidità dell’osservazione: “Credimi, è più facile imparare a fare il presidente della Sicilia che il detenuto… E’ solo che le cose che fuori sono normali qui non lo sono più…” – appunto: scusi, superiore, posso tenere questo biglietto?
Ha scritto un libro – nel poco sonno che, al contrario di Prospero nella “Tempesta” shakespeariana, circonda nella piccola cella la vita del detenuto Cuffaro Salvatore, nella poca luce, nel giorno che mai finisce. E ha trovato un titolo bellissimo: “Il candore delle cornacchie”. Candore? Sono neri e oscuri, quegli uccelli che vediamo dalla finestra… “Ma una volta erano bianchi”, racconta Totò. Succedeva nel mito, ad Apollo: erano candide e amichevoli, le cornacchie ora nere e diffidenti. Così belle che Apollo le pose a guardia (a spia?, a delazione?, a sbirresco destino?) della fedeltà della sua amata. Ma l’amata con l’umano la tradì – e l’ira del dio colpì lei, e colpì i poveri volatili, che divennero da neve cenere, da luce buio, dallo stupore al disprezzo. E di cornacchie – di come furono e di come divennero – il libro di Cuffaro (“ma è lungo, chissà se lo pubblicheranno”) parla. “Racconta la mia esperienza di un anno e mezzo di galera, e le storie di alcuni miei compagni di pena. I fili della mia vita qui dentro che si collegano ai fili della mia vita prima del carcere. Sono impressioni, riflessioni, vicenda, vita intima, ho spostato il mio sguardo di pregiudizio… I detenuti osservano il mondo esterno, lo desiderano, ma lo fanno anche nella speranza che il mondo esterno possa osservarli a sua volta, ricordarli e occuparsi di loro. I politici possono fare anche cose importanti per loro, senza venire qui dentro come è successo a me. Ma forse il carcere non si capisce se non si vive…”. Si ferma per qualche minuto, Cuffaro. Osserva i visitatori, l’ispettore che in un angolo osserva noi, le cornacchie che tutti ci fissano da laggiù. “Anche i detenuti, così come le cornacchie, sono stati semplici e puri. La giustizia li ha affidati a queste celle, ora che sono scuri, perché venissero conservati, ma io ricordo sempre che sono stati candidi anche loro… In questi due anni qui dentro, mai mi sono accorto di stare in mezzo a dei criminali…”, sorriso e pausa ironica, “… a parte che criminale sarei anch’io… mi sono accorto di stare in mezzo a delle persone, a degli uomini, che nonostante il carcere non sia facile da vivere, cercano di mantenere la loro dignità… Sarebbe il momento di provare a cancellare almeno la pena dell’ergastolo, quel ‘fine pena mai’ che non dà scampo…”. A volte ci sono celle, si racconta, con sette, otto detenuti, e una sola latrina. “Noi siamo in quattro, e loro diventano il tuo mondo: i momenti intimi, le gioie, andare al bagno senza fare rumore, così psicologicamente qualche problema c’è… So che quando andrò fuori da qui porterò con me un grande ricordo, c’è un segno che rimane dentro per sempre di sofferenza e di dolore e di umanità…”.
Ha un regime carcerario più ristretto degli altri, articolo 7, poi articolo 4/bis, per aver favorito la mafia. “E’ tutto più rigido, né permessi né servizi sociali. Solo due telefonate al mese, che faccio ai miei genitori, e solo quattro ore di colloquio al mese. Mia moglie e i miei figli vengono tutte le settimane dalla Sicilia, per un’ora di colloquio. Gli dico di venire solo una volta ogni due settimane, ma egoisticamente non glielo faccio fare… Sono passati molti parlamentari, di tutti i partiti… Io ho avuto la fortuna di avere dei genitori praticanti, e qui dentro mi è successo in qualche modo di rincontrare la mia anima, di cui fuori non avevo modo di occuparmi…”. E nel 2016, a parte prendersi cura di pomodori e uva, cos’altra vorrà fare Totò Cuffaro? “Intanto laurearmi in Giurisprudenza, ho dato già diversi esami… Poi penso a tutte le cose che non ho fatto fino a ora. Starò molto più vicino alla mia famiglia: io non ho visto i miei figli crescere, non ho visto mia figlia laurearsi tre mesi fa… Certo, alla laurea non potevo essere presente, ero qui dentro, rinchiuso, non è colpa mia; ma non ricordo neanche quando mio figlio ha fatto dieci anni, non c’ero, chissà dove mi trovavo, e quella è una mia colpa”.
In un’altra stanza, ci sono i familiari venuti dalla Sicilia che aspettano. “Lo sapete che mia figlia farà il magistrato? Una sorta di nemesi storica. Io sarò agricoltore, ma con la mia laurea in Giurisprudenza le starò vicino, le ricorderò che ha un compito straordinario, per il quale serve la testa e serve il cuore. Non puoi fare il lavoro di magistrato né solo con la testa né solo con il cuore…”. C’è un velo di commozione, nello sguardo dell’uomo che fu il più potente della Sicilia. “E’ come se mia figlia avesse sconfitto la mia sconfitta… Non c’è, e forse non ci sarà più, pace, ma almeno adesso una certa serenità… Ripeto spesso, dentro di me, una frase di Julián Carrón: ‘Il cuore è il fattore che ci rende uomini’. E’ quello che muove la vita, che costruisce le opere di bene, che costruisce la positività… E’ il cuore che aiuta a prendere, di ogni esperienza, il lato positivo. Anche qui, adesso. Anche stasera, in cella”. Legge molto, oltre che scrivere molto, il detenuto Cuffaro. Ha letto il libro di Pietrangelo Buttafuoco “Le uova del drago” (“ma senza copertina: era rigida e il regolamento impone di strapparla”), ha riletto “La montagna incantata” di Thomas Mann, ogni tanto “I promessi sposi”, infine la scoperta delle “Consolazioni della filosofia” di Boezio. Totò Cuffaro si alza, va verso la porta. Sposta il viso dentro un filo di luce. “Il sorriso non è più quello di prima, è più cupo, più triste, lo vedete… Ma credetemi, a volte ci sono dei doni inattesi di umanità che ricevi e che nessuno ti potrà più togliere. Anche qui, dentro un carcere”.
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