Collegialità e comunione, la democrazia con la chiesa non c'entra
Giuseppe Betori, folignate, 65 anni, cardinale arcivescovo di Firenze, biblista molto attento nel contrastare le letture esegetiche che separano il Gesù della storia dal Cristo della fede, presidente della commissione che redige il messaggio finale al Sinodo dei vescovi, deve molto nel suo percorso formativo a due cardinali di peso degli ultimi decenni italiani, Camillo Ruini e Carlo Maria Martini.
Roma. Giuseppe Betori, folignate, 65 anni, cardinale arcivescovo di Firenze, biblista molto attento nel contrastare le letture esegetiche che separano il Gesù della storia dal Cristo della fede, presidente della commissione che redige il messaggio finale al Sinodo dei vescovi, deve molto nel suo percorso formativo a due cardinali di peso degli ultimi decenni italiani, Camillo Ruini e Carlo Maria Martini. Fu Martini, infatti, che nel 1981, già rettore del Pontificio Istituto Biblico e da appena due anni arcivescovo di Milano, diede l’addio alla carriera universitaria segnandosi come correlatore (relatore fu Díonisio Mínguez, che poi lasciò l’abito) al dottorato in Scienze bibliche di Betori, interessato a una tesi il cui titolo non era prettamente nelle corde del prestigioso gesuita: “Perseguitati a causa del Nome. Struttura dei racconti di persecuzione in Atti 1,12-8,4”. Fu Ruini, invece, che scelse Betori come suo fidato collaboratore negli anni di conduzione della Conferenza episcopale italiana, gli anni del Vangelo inteso come forza culturale della società. Un’èra oggi dimenticata? “Non direi”, dice Betori al Foglio qualche ora prima della conferenza stampa di fine lavori del Sinodo. “Anche in queste settimane ci siamo riuniti per riaffermare la potenza del Vangelo come forza culturale per la nostra società e non, come molti vorrebbero, la culturalizzazione della pastorale. Il Vangelo giudica tutto e chiama ogni uomo al confronto coi propri contenuti. Di più, il Vangelo è un giudizio sul mondo senza accomodamenti. Una sana ragione non può non confrontarsi col Vangelo. Ogni intellettuale che si rispetti è chiamato a questo confronto, la sua intelligenza lo esige ma è anche lo stesso Vangelo a esigerlo. Il Vangelo giudica il mondo perché ne taglia le imperfezioni”.
Il “taglio” è stato il tema cardinale dell’intervento di Betori al Sinodo. Non c’è trasmissione della fede senza un taglio. Cosa significa? “Taglio è un’immagine di san Basilio ripresa dal cardinale Joseph Ratzinger da uno studio del teologo ed esegeta tedesco Joachim Gnilka. Nell’Aula Paolo VI, nel 2002, durante il convegno della Cei “Parabole mediatiche”, Ratzinger fece una riflessione incentrata sul rapporto fra fede e cultura. Parlò del fatto che la presenza del cristiano nel mondo non si configura come un adeguamento a esso, senza una prospettiva critica. Proprio la fede costituisce un principio irrinunciabile di discernimento in ordine al vero, al bene, al giusto e al bello, che porta il discepolo di Cristo a fuggire l’errore, il male, la prevaricazione, ciò che è ignobile e spregevole. Si stabilisce così un quadro di estraneità a ogni compromesso con mode, tendenze, egemonie culturali che sfigurano l’immagine divina iscritta nel profondo dell’identità dell’uomo e della donna. La fede opera come una sorgente di autenticità che sana e vivifica. Basilio il Grande, nel confronto con la cultura greca del suo tempo si trovò di fronte a un compito assai simile a quello che oggi interpella noi. Basilio fa riferimento al profeta Amos, là dove dice di sé: ‘Io sono un mandriano e coltivatore di sicomori’. La traduzione greca dei Settanta esplicita diversamente l’ultima espressione: ‘Ero uno che incide i sicomori’, basandosi sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere intagliati prima del raccolto, così da accelerarne la maturazione. Il sicomoro produce frutti molto abbondanti, i quali però non hanno alcun sapore se non vengono incisi accuratamente, cosicché il loro succo fuoriesca ed essi diventino gradevoli al gusto. Per questo motivo consideriamo (il sicomoro) come un simbolo per l’insieme dei popoli pagani: sono una grande quantità, ma allo stesso tempo insipidi. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando però si riesce a inciderla con il Logos, essa si trasforma, diventa gustosa e utile. Soltanto il Vangelo può incidere le nostre culture e i loro frutti, affinché ciò che prima era inutilizzabile sia purificato e reso non soltanto valido ma anche saporoso. Il Vangelo è un taglio, una purificazione destinata a produrre maturazione e risanamento. Questo taglio è un approccio alla cultura dal suo interno, percezione delle sue minacce, come pure delle sue possibilità palesi o nascoste. E’ per questo motivo che Ratzinger è contrario al termine inculturazione perché equivoco. Vera inculturazione è quando il Vangelo purifica, risana, le culture. Non quando semplicemente entra nelle culture senza giudicarle. Il Vangelo non si adegua alla cultura perché è la medicina delle culture. L’immagine del taglio è rilevante anche nel Nuovo Testamento per indicare la capacità della parola di Dio nel fare discernimento sulle realtà umane. La parola è una spada a doppio taglio che entra nel cuore dell’uomo”.
Questo taglio, questo giudizio sul mondo, sembra essere oggi più difficile di un tempo. Il Papa parla di una preoccupante desertificazione della fede. Viviamo in un deserto spirituale. Per molti questo deserto è anche frutto del Concilio, delle sue aperture. Dice Betori: “Il deserto della fede non è un frutto del Concilio. E’ semmai frutto di un contesto culturale che il Concilio non poteva prevedere. Non ne è causa né può avere risposte adeguate per il tempo contemporaneo se non attraverso un cammino di comprensione nuovo. Così hanno fatto Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E’ il magistero del Papa che in continuazione invita ad affrontare i nuovi contesti ritornando al Concilio, studiandolo e tenendo conto dei tempi nuovi. Il tema del deserto però è anche un tema biblico di purificazione della fede. Non è soltanto un tempo di prova e di aridità. E’ anche un tempo in cui la fede d’Israele matura. Un tempo oscuro per tutti noi, di disorientamento, ma anche un tempo di messa alla prova che purifica. E’ un tempo di ritorno all’essenziale della fede”.
Da più parti, però, si ritiene che la chiesa sia ancora un passo indietro rispetto alle sfide dei tempi. C’è chi dice che la chiesa non è oggi profetica, che è rimasta a 200 anni fa, e c’è chi chiede un Concilio Vaticano III: “Un Concilio ha sempre un lungo periodo di maturazione. Il nostro non è un tempo di un nuovo Concilio ma di comprensione dell’ultimo Concilio. E’ lo Spirito Santo, e non i chierici, laici o religiosi, a stabilire il tempo propizio di un nuovo Concilio. Il Vaticano II è arrivato quando un Papa spinto dallo Spirito Santo ha detto che il momento era arrivato. Nessuno si è messo a tavolino per prevederlo. Il Concilio non è un evento che pochi illuminati possono decidere a tavolino. La chiesa oggi è profetica soltanto se rimane fedele a se stessa, alla sua missione di giudicare il mondo e di chiamare gli uomini al confronto col Vangelo”.
In Austria e in Germania gruppi di sacerdoti e di laici chiedono riforme strutturali. L’abolizione dell’obbligo del celibato sacerdotale, nuove misure per i divorziati risposati, una maggiore considerazione del ruolo delle donne e in generale dei laici. Sono proposte che preoccupano? O cosa? “Sono proposte alle quali occorre rispondere anzitutto dicendo che nessun rinnovamento avviene modificando le strutture della chiesa. Il rinnovamento avviene piuttosto se Dio torna ad avere un suo posto nella chiesa e nella società. Cambiare le strutture non cambia la fede dei credenti. Ciò che spinge a credere è l’incontro con Cristo. Il vero problema è il posto che Dio ha nella coscienza della gente. Il problema di Dio è ciò che mette in crisi l’uomo, che lo interroga e che converte, non se i preti si sposano oppure no. Se i preti si sposano non aumentano i credenti”.
Un altro tema che ricorre è quello di una maggiore collegialità. Per molti il Sinodo potrebbe divenire il luogo in cui un esercizio del potere più collegiale viene messo in campo. “Il Sinodo è già un evento collegiale. Cosa significa collegialità? Significa maggiore partecipazione nelle dinamiche della comunità. Non significa più democrazia. La democrazia cerca la prevalenza di un’opinione sulle altre. La comunione invece tende a portare tutti verso un qualcosa che può essere da tutti ritenuto proprio. Se il Sinodo, ad esempio, dovesse accettare le decisioni democratiche non aiuterebbe la comunione della chiesa ma introdurrebbe quel principio della democrazia che non le è proprio”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano