La vita romanzesca di Henze, fratello d'Italia e musicista sregolato

Nicoletta Tiliacos

All’amico musicista Hans Werner Henze, morto ottantaseienne a Dresda sabato scorso, la scrittrice Ingeborg Bachmann dedicò, nel 1967, la poesia intitolata “Enigma”: “Non devi assolutamente piangere / dice una musica. / Nessun / altro / dice / qualcosa”. La musica era quella della sinfonia “Ariosi”, composta da Henze su versi di Torquato Tasso nel ’63, quando viveva già da dieci anni in Italia. Vi sarebbe rimasto quasi fino all’ultimo, in una grande casa tra ulivi secolari, ai Castelli romani, divisa per quarant’anni con il grande amore della sua vita, Fausto Moroni.

    All’amico musicista Hans Werner Henze, morto ottantaseienne a Dresda sabato scorso, la scrittrice Ingeborg Bachmann dedicò, nel 1967, la poesia intitolata “Enigma”: “Non devi assolutamente piangere / dice una musica. / Nessun / altro / dice / qualcosa”. La musica era quella della sinfonia “Ariosi”, composta da Henze su versi di Torquato Tasso nel ’63, quando viveva già da dieci anni in Italia. Vi sarebbe rimasto quasi fino all’ultimo, in una grande casa tra ulivi secolari, ai Castelli romani, divisa per quarant’anni con il grande amore della sua vita, Fausto Moroni. Nella villa chiamata “La Leprara”, a Marino, Henze compose gran parte delle sue opere, le dieci sinfonie, le musiche per balletti e per il cinema, gli oratori, i concerti sacri e da camera. Lì aveva ospitato anche il leader degli studenti tedeschi, Rudi Dutschke “il rosso”, convalescente dopo essere stato ferito a Berlino da tre colpi di pistola sparati da un imbianchino (che si chiamava Bachmann anche lui). Henze fu infatti artista engagé, grande ammiratore di Che Guevara e della rivoluzione cubana.

    Era anche, la casa di Marino, una “piccola corte rinascimentale di campagna”, come quella – umbra – attribuita da Alberto Arbasino, in “Fratelli d’Italia”, al musicista Klaus, personaggio nel quale è facile riconoscere l’alter ego di Henze: bello, brillante, seducente agli occhi di uomini e donne. Entrambi sono, come il loro conterraneo Christoph Willibald Gluck, del “segno del Cancro: sensibilità, emotività, gestazione, tendenze materne”, scrive Arbasino, che a Klaus-Henze fa colloquialmente esporre le ragioni della sconfitta di Gluck e della vittoria di Mozart. L’austero, semplice, rigoroso Gluck non aveva fatto i conti con “un giovanottino pasticcione dell’Acquario, senza un ‘sistema’, senza riforme in testa, senza problemi di stile, senza manifesti ‘per un nuovo mondo dei suoni’”, il quale “avrebbe cominciato a svolazzare sul palcoscenico come una lucciola, flirtando senza vergogna con tutti i ‘generi’ musicali pensabili”.
    Henze, in questo, si poteva ben identificare. Talento precoce (componeva a dodici anni e da bambino suonava il piano senza conoscere le note), formato alla scuola di Darmstadt e alla dodecafonia, con l’arrivo in Italia trovò una sua strada molto diversa, che lo avrebbe piuttosto apparentato a Bach, a Mahler, a Richard Strauss, allo stesso Mozart.

    Henze raccontava le ironie di un collega tedesco di cui ometteva il nome (“Andrei con piacere in Italia, ma ho paura di finire come Henze, a scrivere musica cantabile”), ma ci rideva su. Diceva di cercare, nella musica, soprattutto “il mistero”, e si abituò a essere considerato da alcuni innovatore e da altri tradizionalista. Non voleva darsi limiti formali all’ispirazione: all’epoca in cui abitò a Ischia, per esempio, scrisse cinque lieder napoletani, i “Fünf neapolitanische Lieder”. Era la metà degli anni Cinquanta, il tempo della scoperta dell’Italia e del legame, così simile all’amore senza poterlo mai essere pienamente, con Ingeborg Bachmann. Un amore impossibile per l’omosessualità di lui, che tuttavia non impedì una breve convivenza e progetti  matrimoniali, prima di diventare un rapporto ventennale di complicità e di collaborazione professionale. Scriveva Henze alla Bachmann nel luglio del 1953: “Un po’ di fortuna di quella che non gocciola dalle grondaie intellettuali e non va a finire in fauci intellettuali, un po’ di gioia delicata e di amore, forse, su una terra molto fredda sconosciuta e incontaminata, piccoli miracoli di belleza e di purezza, non può essere che un bene per chi voglia lavorare”.

    Nel 2009, nella prefazione all’epistolario da cui è tratta la citazione (“Bachmann-Henze. Lettere da un’amicizia”, Edt), il compositore diceva che, rileggendo le lettere a tanti anni di distanza e dalla stessa morte dell’amica (avvenuta nel 1973), “ciò che ancora oggi si può vedere chiaramente è l’aura di un affetto reciproco e fraterno e, per quanto mi riguarda, un sentimento di venerazione e riconoscenza”. Per la musica di Henze, la Bachmann aveva scritto, tra l’altro, il testo del balletto “L’idiota”. Le ultime battute pronunciate dal principe Myskin possiamo leggerle come epitaffio: “Dentro la matassa del silenzio le campane / si accingono al riposo, potrebbe trattarsi della morte; / vieni dunque, bisogna far silenzio”.