Ma anche tu hai fallito?/Ultimo di una serie di articoli

Come siamo e come eravamo, il baby boomer non fa autodafé

Nicoletta Tiliacos

Ha scritto sul sito donnealtri.it il giornalista Alberto Leiss, intervenendo sul tema del fallimento politico, soprattutto italiano, della generazione dei baby boomer, che ad assecondare l’invito alla rottamazione lanciato da Matteo Renzi e a dare per acquisito che alla base della difficile contingenza attuale ci sia un difetto – un tradimento, un fraintendimento, una debolezza – generazionale, “si rischia di offuscare, in una nebbia in cui tutti i gatti sono grigi, una critica che invece sarebbe necessario svolgere in modo approfondito per reagire alla crisi della politica”.

    Roma. Ha scritto sul sito donnealtri.it il giornalista Alberto Leiss, intervenendo sul tema del fallimento politico, soprattutto italiano, della generazione dei baby boomer, che ad assecondare l’invito alla rottamazione lanciato da Matteo Renzi e a dare per acquisito che alla base della difficile contingenza attuale ci sia un difetto – un tradimento, un fraintendimento, una debolezza – generazionale, “si rischia di offuscare, in una nebbia in cui tutti i gatti sono grigi, una critica che invece sarebbe necessario svolgere in modo approfondito per reagire alla crisi della politica”.

    Di crisi e di fallimento della politica, per forza di cose legati anche a un aspetto generazionale, preferisce infatti parlare il filosofo Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia e protagonista di una lunga militanza nelle formazioni della sinistra istituzionale: “Per un Fabio Mussi, ormai da tempo defilato, che parla apertamente di fallimento, non vedo nessuno, tra coloro che sono ancora in sella, disposto a confessarlo. A partire dall’attuale segretario del Pd, che certamente non ha avuto scarso ruolo nella vicenda politica degli ultimi trent’anni. A questa generazione manca sicuramente un discorso autocritico ponderato. Ma anche in chi vuole la rottamazione – aggiunge Cacciari – non riconosco un’analisi convincente delle ragioni che hanno portato a questo fallimento, che senza dubbio c’è. A destra come a sinistra, è mancata l’analisi del salto d’epoca, della fine del Novecento. I movimenti e le culture politiche sulla scena sono ancora informati alle ideologie, alle strategie, ai programmi del secolo passato, ed è un problema soprattutto italiano. Eppure, negli anni Ottanta erano stati avviati processi di un qualche interesse, malgrado l’irresponsabilità con cui nei due decenni precedenti si erano affrontate questioni cruciali, prima tra tutte quella del debito pubblico. Qualcosa insomma andava maturando, nella generazione che stava arrivando al potere (mi riferisco sia all’allora Partito comunista sia a quello socialista) a proposito della considerazione della sua missione politica e attorno al crollo dei muri. Poi, la caduta traumatica della Prima Repubblica ha spostato tutti indietro; c’è stato un arroccamento, e mentre da un lato è rispuntato addirittura l’anticomunismo, dall’altro si è affermata la fasullissima idea che si potesse arrivare a governare senza pagare alcun dazio, con gli sconfitti della storia convinti e illusi di poter vincere in Italia”.
    Di tutti gli errori fatti, Cacciari vede una comune e fondamentale origine “in un limite culturale. Non si è aperto il dibattito, che poteva esserci se non ci fosse stata Tangentopoli, sulla fine del Novecento, né sulla fine della composizione sociale  di quelle culture, di quell’assetto produttivo, economico, politico.  Non si è metabolizzato un cambio d’epoca, e quelli che potevano farlo non l’hanno fatto. Tutti hanno cercato di vincere attraverso la rovina altrui; a turno, vinceva uno perché l’altro collassava. Così, temo, continuerà”.

    Il giornalista del Manifesto Marco d’Eramo vede a sua volta “negli anni Ottanta la grande occasione mancata, e spiegherò poi perché. Ma prima, e prima di parlare di fallimenti, vorrei ricordare che cosa è capitato in sorte a quelli della mia età, nel momento in cui ‘toccava a loro’. La caduta dell’Unione sovietica ha comportato che, in Italia, dal 1992 in poi, non abbiamo più avuto crescita, sono scoppiate le inchieste di Mani pulite e Giulio Andreotti, fin lì sostenuto dagli americani, si è trovato a essere processato per mafia. La mia generazione, inoltre, si è trovata in mezzo a un processo di restaurazione mondiale. Allora non ce ne rendemmo conto, ma ci fu una de-laicizzazione delle nostre società. Mettiamo a confronto due istantanee. 1965: a Roma c’è il Concilio Vaticano II, negli Stati Uniti governa un presidente laico come Lyndon Johnson, in Germania ci si avvia verso la Grosse  Koalition e di lì a poco Willy Brandt sarebbe diventato vicecancelliere, in Francia c’è un laico come De Gaulle, in Israele ci sono i socialisti laici al potere, in Iran c’è uno scià laico, in Pakistan c’è un laico come Ali Bhutto, in India governa un partito laico, il Congress party. Anni Novanta: negli Stati Uniti vince la moral majority religiosa, nella chiesa cattolica arriva Papa Wojtyla, in Israele governa il Likud, in Iran è al potere Khomeini, in Pakistan il generale Muhammad Zia ul-Haq usa strumentalmente l’islam (ma lo usa), in India prende il potere il Bharatiya Janata Party, conservatore e induista. Diciamolo francamente: agli inizi degli anni Sessanta, chi avrebbe immaginato che tutti gli intellettuali europei sarebbero stati impegnati, quarant’anni dopo, a parlare di Corano?”. Dando per acquisita l’imprevedibilità di questi e altri passaggi, rimane il fatto che, spiega Marco d’Eramo, “almeno in Italia, il vero treno perso è stato quello degli anni Ottanta, con tutta l’energia accumulata nei due decenni precedenti risolta in ‘Milano da bere’ e craxismo”. Che cosa poteva fare questa generazione che non è riuscita a fare? Vale l’idea del rottamatore Renzi, il quale sostiene che l’entità del fallimento dei baby boomer si misura sull’entità del debito pubblico accumulato? D’Eramo ricorda che “l’Italia aveva avuto un miracolo economico basato sulla magnanimità statunitense. Il debito pubblico era immenso già allora e non importava a nessuno; ce lo lasciavano accumulare tranquillamente perché eravamo pilastro e frontiera dell’impero. Ora le basi americane stanno in Romania e in Turchia, noi siamo diventati irrilevanti. Ecco perché il ‘luogo del delitto’ sono gli anni Ottanta. E’ in quel periodo che si doveva e poteva formulare un modello di crescita italiana alternativo a quello che chiamo ‘clientelar-keynesismo’”. Prego? “In pratica: se per ottenere un servizio avevi bisogno di tre impiegati invece di uno, il risultato fondamentale era che si vendevano tre Fiat al posto di una. La nostra crescita si è basata sulla domanda interna spinta dall’elefantiasi del settore pubblico, è inutile far finta di no, e quando gli Stati Uniti non sono stati più indulgenti con noi, è scoppiata Mani pulite. Detto questo, ci sono generazioni che certamente hanno sfruttato meglio i loro quarant’anni rispetto alla nostra, che dei cinque talenti avuti in sorte ne ha restituiti forse tre o quattro. Non abbiamo creato ricchezza, ma altre cose che ci attribuiamo o ci attribuiscono sono semplicemente fisiologiche della storia. La verità è che ogni generazione soffre di amnesia. Deve reimparare tutto daccapo, le lezioni precedenti non servono a niente”.

    Il giornalista inglese Martin Eiermann, sull’European magazine, ha scritto – non è nemmeno un baby boomer, ma un trentenne – che imputare all’espansione eccessiva del welfare in Europa l’esplosione dell’attuale crisi è  sbagliato. Le spese sociali registrate per decenni dai governi nazionali, dall’Ocse, dal Fondo monetario internazionale e da Eurostat, secondo Eiermann raccontano un’altra storia: “Il welfare non è fuori controllo. Nell’esaminare la sostenibilità delle spese sociali, il numero critico non è l’ammontare totale delle spese, ma il loro rapporto rispetto al pil. In poche parole, il rapporto tra costi sociali e il pil ci dice se un paese può permettersi il proprio stato sociale”. Usiamo per un attimo il ragionamento di Eiermann come metafora: ci sono state una o più generazioni che hanno vissuto con agio crescente, contando sempre più sullo stato sociale, ma che poi, da un certo punto in poi,  non hanno creato un’adeguata ricchezza, intesa in senso lato, e non hanno restituito quel che avevano ottenuto in termini di opportunità, investimenti, vitalità (pensiamo solo al crollo demografico). Chiediamo a Giancarlo Cesana, tra le figure di spicco di Comunione e Liberazione, se ritiene fondata l’analisi: “Sono d’accordo senz’altro con chi ritiene che ‘la generazione, che aveva vent’anni negli anni Settanta o giù di lì’ abbia fallito. Una generazione fallisce quando non è feconda, cioè quando non fa figli né in senso biologico né in senso culturale, e la generazione di cui parliamo soffre di grande debolezza in entrambi i campi. Dal punto di vista culturale, ha rotto con la tradizione prima prevalente, quella cristiana, che come antropologia era diffusa anche tra gli agnostici, senza riuscire a introdurre un rapporto più adeguato con la realtà. Lo si vede soprattutto nella dilagante incapacità educativa, e non poteva essere altrimenti: non si distruggono impunemente il passato, la tensione e la ricerca del vero che ci hanno preceduto. Una novità, per essere tale, deve ricomprendere e valorizzare il buono che c’era prima.  Politicamente, in Italia, la generazione in questione è stata protagonista più che altro di una rivoluzione socialista, che ha collettivizzato la società. Debito pubblico, corruzione e impero della legge sono le conseguenze. Io, però – aggiunge Cesana –  non posso sentirmi colpevole di un fallimento  che ho cercato di combattere in ogni modo. Anch’io sono partito da sinistra, ma proprio all’inizio degli anni Settanta ho incontrato don Giussani e ho cominciato la mia vita in Comunione e Liberazione. Proprio perché sentivamo tutte le urgenze – molte delle quali sacrosante – dei nostri compagni, siamo stati noi stessi, non ci siamo lasciati collettivizzare. Abbiamo commesso sbagli e dato pretesti alle critiche, d’accordo, ma siamo stati originali e credo che molta della distanza e dei timori nei nostri confronti siano dovuti alla nostra incompresa distinzione (e non posso non sottolineare che Cl è l’unico movimento rimasto in piedi tra quelli che agivano negli anni Sessanta e Settanta. Dobbiamo tenerne conto, così come dobbiamo tener conto del valore culturale dell’esperienza di Cl, oggi osteggiata con gli stessi toni di intolleranza che sentivamo negli anni Settanta). La verità per noi esiste e non è nelle idee e nei libri, ma in una tradizione vivente, che usa e giudica idee e libri, come i comportamenti e gli avvenimenti. Non voglio apparire presuntuoso e nemmeno proclamare un’altra superiorità morale. Voglio solo dire che nella nostra generazione non tutto è uguale e c’è qualcuno che è stato, ed è, diverso. Non  per una maggiore coerenza, ma per quello che ha incontrato e per come si è trovato a essere. Tutti abbiamo dei difetti – aggiunge Cesana –  ma nei momenti di grave difficoltà, come quelli che attraversiamo, ci vuole capacità critica, che non è solo vedere le cose che non vanno (di questo sono capaci tutti: il nostro paese è diventato una lamentazione generale) ma quelle che vanno. Anche su questo gli intellettuali della mia generazione fanno fatica, a causa di pregiudizi inamovibili e di scarsissimo senso pratico”. Quanto a Matteo Renzi, le cui provocazioni hanno dato origine a queste riflessioni,  Giancarlo Cesana pensa che “sia ingiusto e sbagliato usare la gioventù come una forma di razzismo. Renzi ha il diritto di dire quel che dice, ha le sue buone ragioni. L’esito però non dovrebbe essere ‘ti rottamo’ o ‘togliti di mezzo’, ma ‘confrontiamoci’”.

    L’idea di fallimento generazionale non convince affatto la giornalista Ritanna Armeni, firma del Foglio dopo aver lavorato a lungo al Manifesto e all’Unità. Perché, dice, “non sono le generazioni a essere sconfitte ma certe idee politiche. E’ un’impostazione che mi irrita anche perché ci vedo il vizio maschile di vivere le cose da eroi:  vincitori o sconfitti, se non sei Achille devi almeno essere Ettore. Chiamare in causa un fallimento generazionale è poco convincente proprio per questi aspetti romantici, misteriosi, che non spiegano nulla”. E’ però innegabile che, almeno fino alla fine degli anni Settanta, quella dei baby boomer sia stata la generazione che ha più pensato a se stessa come a una specie di tribù contrapposta al resto del mondo. Una tribù legata da vincoli di sangue culturali, se non politici: “Certo, se penso che volevamo e che volevo fare la rivoluzione, devo considerarmi per forza fallita. Ma quella cosa io l’ho davvero pensata per non più di due anni della mia vita, e allora non posso risponderne per sempre, vorrei guardare oltre. Chi ragiona in termini di fallimento di generazione – come dice Renzi e non solo lui – dimostra di avere un’idea ingegneristica dei cambiamenti. Io mi sono abituata, dopo aver rinunciato alla rivoluzione, a fare paragoni più ampi e concreti. Se confronto la mia vita e la vita delle donne della mia età a quella delle donne che avevano la stessa età cinquant’anni fa, non vedo fallimento. Ma anche  a guardare la società, e perfino ai giovani cosiddetti ‘senza futuro’, constato uno smacco della politica, non generazionale. A ben vedere, e nonostante non abbiamo avuto in Italia uno stato come in Francia o in Gran Bretagna, non è che i nostri problemi siano tanto diversi da quelli che hanno lì. Semmai, se una generazione misura la propria riuscita dal fatto di produrne un’altra, è in questo che non siamo stati granché bravi in questo paese”.

    Giuliano Zincone non rientra per pochi anni nella categoria dei baby boomer, ma di vizi e virtù di quella generazione si è occupato da giornalista e da scrittore: “Nel 1970 cominciavo un saggetto con questa frase: ‘Quando le barbe dei conquistatori saranno edera sulle poltrone del potere…’. Se quella generazione ha colpe, sono colpe di un’élite, e allora mi rifiuto con grande forza di definire ‘generazionale’ la responsabilità di quello che ha fatto una piccola minoranza politica. Negli anni Sessanta e Settanta, quando facevo inchieste in giro per il paese, mi imbattevo in sacche di miseria spaventosa, in incidenti sul lavoro che erano quattro volte quelli di oggi, in una vita culturale e sociale infinitamente peggiore di quella attuale. Distinguiamo allora tra le qualità e le responsabilità di un  piccolo gruppo e il resto di una generazione. E distinguiamo  anche la rivoluzione degli anni Sessanta – bella, creativa, festosa, dolce, che ha riguardato la cultura, lo spettacolo, la musica, la libertà, il sesso – da quello che è successo con l’affermarsi successivo di contrapposizioni ideologiche e molto gerarchiche. Nei piccoli gruppi che si formarono dopo le rivolte libertarie degli anni Sessanta c’erano capi che decidevano se ti potevi sposare oppure no… La piccola élite marchiata da quel peccato originale di ideologia e gerarchia è andata a finire tutt’altro che male. Le leadership italiane di oggi si sono formate lì”. C’è quindi chi imputa loro il fatto di aver penalizzato il paese… “Ma nemmeno questo è  del tutto vero. A parte le idiozie che scrivono i giornali, la vita in questo paese è buona per le grandi masse, ed è enormemente migliore di quanto sia mai stata in precedenza. Si potevano certamente fare scelte più sagge, in certi momenti. Ma vogliamo ricordarci di che cos’era l’Italia? No, questo fallimento di una generazione non lo vedo affatto”.