Il Web in una stanza. Contro il luogo comune di Internet che ci rende scemi

Piero Vietti

Troppe cose da conoscere in troppo poco tempo. Questa sensazione accompagna l’uomo dall’inizio della storia, corollario del suo naturale desiderio di sapere la verità del mondo, ma sembra essersi ingigantita a dismisura con l’arrivo di Internet. Volendo dosare le parole, e cercando dunque di evitare l’abusato termine “rivoluzione” per definirlo, bisogna ammettere che il Web ha cambiato il nostro modo di conoscere.

    Troppe cose da conoscere in troppo poco tempo. Questa sensazione accompagna l’uomo dall’inizio della storia, corollario del suo naturale desiderio di sapere la verità del mondo, ma sembra essersi ingigantita a dismisura con l’arrivo di Internet. Volendo dosare le parole, e cercando dunque di evitare l’abusato termine “rivoluzione” per definirlo, bisogna ammettere che il Web ha cambiato il nostro modo di conoscere. C’è naturalmente chi – come il Nicholas Carr di “Internet ci rende stupidi?” – sostiene che questo cambiamento sia stato deleterio, e chi pensa l’opposto. A questa seconda categoria appartiene David Weinberger, ricercatore presso il Berkman Center for Internet and Society presso l’Università di Harvard, che qualche mese fa ha pubblicato in America “Too big to know”, saggio che esce in questi giorni in Italia (tradotto ed edito da Codice edizioni con il titolo “La stanza intelligente”), dopo la sua apparizione al Festival della Scienza di Genova lo scorso fine settimana. L’idea di Weinberger è questa: l’Universo è grande e il nostro cervello troppo piccolo per poterlo comprendere. Fino ai nostri giorni il mondo si è evoluto con una strategia quasi perfetta, grazie al filtro di esperti che conoscevano “pezzi” di universo e li tramandavano sui libri dando a chi veniva dopo di loro la possibilità di partire dal punto già acquisito. In altre parole, la fede come metodo di conoscenza, basato sull’esperienza di altre persone affidabili. Tutto questo, dice Weinberger, oggi è superato. Non ci sono più né punti a terminare le frasi, né quarte di copertina a mettere una fine a un ragionamento, ma link. E i link per loro natura rilanciano, invitano a proseguire, suggeriscono un approfondimento.

    La conoscenza intesa come quantità di dati da conoscere è alla portata di tutti, non più relegata in polverose biblioteche. Ma il link è spesso incontrollato, genera disaccordo, porta a galla teorie opposte magari basate sugli stessi fatti, “ma è il prezzo da pagare perché il disaccordo diffonde conoscenza”, diceva Weinberger in un’intervista a Wired. E anche se in rete cerchiamo continuamente “camere dell’eco”, luoghi in cui trovare soltanto persone che la pensano come noi, bisogna rassegnarsi a un’evidenza, scrive lo studioso di Harvard: “Quando la conoscenza entra a far parte di una rete, la persona più intelligente della stanza non è la persona che tiene la lezione davanti a noi, né la saggezza collettiva delle persone presenti. La persona più intelligente nella stanza è la stanza stessa: la rete che unisce persone e idee presenti, e le collega con quelle all’esterno”. Il libro è fitto di esempi virtuosi di come la grande stanza della rete abbia permesso a scienziati e studiosi di condividere in rete le proprie scoperte e fare passi avanti nei loro studi grazie a questo meccanismo più aperto, trasparente e senza dubbio veloce. “La rete contiene molto più sapere di quanto un singolo leader potrà mai possedere o gestire”. Piaccia o no, il nuovo medium della rete non permette più di tenere informazione, comunicazione e socialità separate: “Postate qualcosa e potrete vedere compagni e colleghi che concordano con voi ma anche chi ha da ridire sui punti più ovvi”. Ciò che abbiamo in comune, avverte Weinberger, non è più un sapere sul quale concordiamo, ma “un mondo condiviso sul quale saremo sempre in disaccordo”.

    Dunque Internet ci rende stupidi? Sì, a meno che noi non facciamo qualcosa per evitarlo, dice l’autore: il saggio è tutto un lungo ed efficace tentativo di illustrare i modi grazie ai quali “il networking della conoscenza può diventare la benedizione che dovrebbe essere”. Resta inevasa, volutamente, la domanda fondamentale: se questo nuovo tipo di conoscenza ci avvicini o meno alla verità. Weinberger pensa di sì, ma non dice come (né dirlo è l’obiettivo del saggio). Resta la sensazione che l’ottimismo sull’intelligenza della stanza e la bontà del lavoro condiviso in rete non possano fare a meno, in radice, di un criterio oggettivo. Il rischio è conoscere tutto senza sapere a che serve.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.