Battaglia legale e di numeri tra Cassa depositi e fondazioni
Non è sembrato combattivo Giuseppe Guzzetti dal palco del “Salone del risparmio”. Eppure quella che viene ormai considerata dalla stampa una battaglia di natura squisitamente legale sul ruolo delle fondazioni di orine bancaria nella Cassa depositi e prestiti (Cdp), la prossima settimana entrerà in una fase cruciale. E’ infatti il 15 novembre che le 65 fondazioni, dopo una dilazione precedente, potranno decidere se uscire o meno dal capitale della Cdp che detengono per il 30 per cento delle quote oppure procedere, cercando la migliore intesa possibile con il Tesoro, per via diplomatica, al fine di ridurre il costo del conguaglio per convertire le azioni privilegiate in ordinarie entro fine anno.
Non è sembrato combattivo Giuseppe Guzzetti dal palco del “Salone del risparmio”. Eppure quella che viene ormai considerata dalla stampa una battaglia di natura squisitamente legale sul ruolo delle fondazioni di orine bancaria nella Cassa depositi e prestiti (Cdp), la prossima settimana entrerà in una fase cruciale. E’ infatti il 15 novembre che le 65 fondazioni, dopo una dilazione precedente, potranno decidere se uscire o meno dal capitale della Cdp che detengono per il 30 per cento delle quote oppure procedere, cercando la migliore intesa possibile con il Tesoro, per via diplomatica, al fine di ridurre il costo del conguaglio per convertire le azioni privilegiate in ordinarie entro fine anno.
“Preferiamo rimanere in Cassa depositi ma se non sarà possibile, a malincuore e con dispiacere, recederemo”, ha detto Guzzetti. Può sembrare una dichiarazione timida del banchiere comasco, ma tanto timida non è. Il presidente dell’Acri ha aggiunto: “Quanto alle conversione delle azioni o al recesso chiediamo che ciò avvenga applicando la legge come si conviene a uno stato di diritto”. Dichiarazione forse diretta al ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, che, oltre al cordiale scambio di battute tra i due mercoledì al convegno dell’Acri (Guzzetti si augura che Grilli resti ministro anche dopo la fine del governo tecnico) suona come un richiamo alla Cdp, guidata da Giovanni Gorno Tempini, e al Tesoro.
Guzzetti parla infatti di legge, regole e norme. Si riferisce al codice civile. Perché, appunto, la legge, o meglio gli avvocati, sembrano essere dalla sua parte. Per redimere la questione del conguaglio e del recesso nei mesi scorsi sono stati chiesti tre diversi pareri legali ad altrettanti studi di avvocati. Il Foglio ha potuto leggerli e, tra le righe, emerge una sostanziale convergenza a favore di Guzzetti.
Secondo lo statuto della Cdp, le fondazioni avranno l’obbligo di convertire entro la fine dell’anno le azioni privilegiate in azioni ordinarie pagando però la differenza tra quanto vale attualmente la loro partecipazione rispetto al valore che aveva all’ingresso nel capitale risalente al 2003, valutato poco più di un miliardo di euro, quando la Cdp è diventata contestualmente società per azioni. Qui sta il nodo da affrontare con il Tesoro, principale azionista della Cassa, che a sua volta dovrà esprimere a breve il suo parere. Secondo la valutazione della società di consulenza Deloitte, infatti, il valore della partecipazione sarebbe aumentato nel corso degli anni a 5 miliardi di euro per via del fatto che gli investimenti hanno dato dei frutti. Quindi le casse dovrebbero pagare un differenza di 4 miliardi. Cifra considerata troppo elevata per le fondazioni, che in larga parte sono tra i principali azionisti degli istituti bancari del paese, e che, nella peggiore delle ipotesi, dovrebbero abbandonare.
Dai pareri legali emergono due aspetti principali uno di natura legale, l’altro finanziaria. Il primo, di natura giuridica, in linea teorica darebbe forza alla posizione delle fondazioni. Come scriveva anche il quotidiano MF/Milano Finanza è l’opinione del notaio Piergaetano Marchetti, richiesta dalla stessa Cdp, che andrebbe in questa direzione. Marchetti, infatti, ravvisa che, in base alle attuali regole dello Statuto, con il recesso otterrebbero meno di quanto investito nel 2003 perché dovrebbero rifondare alla Cdp anche i dividendi maturati in sei anni (2003-2009). “In considerazione del fatto che la valorizzazione nominale riguarda l’intero trattamento delle azioni privilegiate c’è il rischio di una declaratoria di illegittimità delle clausole di valorizzazione sotto vari profili”, scrive Marchetti. Il quale poi, nella sua relazione, si allinea con l’opinione dell’avvocato Giuseppe Portale, dello studio Portale Visconti, chiamato a esprimersi dalle fondazioni, e si chiede: “Se per le combinate risultanze della conversione a valori asimmetrici e del recesso sempre nominale, non si finisca per privare il socio del plusvalore creatosi con la gestione – cui pure ha partecipato – nel periodo in cui è socio, mentre sarebbe comunque esposto, come si è visto, al rischio di perdite che riducono il capitale e quindi il valore nominale stesso della sua partecipazione”, scrive Marchetti parlando dell’interrogativo “non affatto privo di fondamento” sollevato da Portale. La questione si avvita, stando a quanto scrive lo stesso Portale, sul valore che devono avere le azioni delle fondazioni, cioè “nominale” o se debbano essere considerate come una “frazione del capitale sociale”.
“Le partecipazioni delle fondazioni – conclude Portale – pur non avendo natura giuridica di ‘azioni’ (al pari di quelle possedute dal ministero) risulterebbero così esposte al rischio di impresa ma escluse – in sede sia di recesso che di conversione – dalla partecipazione piena al ‘netto’: con ciò sancendosi inevitabilmente l’invalidità delle stesse clausole”. Una soluzione però la propone il professore Natalino Irti, titolare dell’omonimo studio romano, anch’egli chiamato dalla Cdp. Per ricomporre il dissenso Irti consiglia l’arbitrato: un ricorso successivo e/o preventivo a un soggetto terzo nominato dal tribunale oppure una “definizione negoziale”, cioè di comune accordo, per risolvere il contenzioso. “La previsione legislativa di arbitraggio non vieta alle parti di raggiungere il medesimo risultato – scrive Irti – cioè la determinazione della prestazione, mediante il diretto e negoziato accordo” per raggiungere di fatto una visione comune sulla cifra da corrispondere.
Qui subentra, però, la questione finanziaria: quanto dovrebbero pagare le fondazioni? Gli avvocati non lo dicono ma è possibile cercare di capire la controversia facendo un passo indietro al 2003. Allora le fondazioni comprano il 30 per cento del capitale sociale della Cdp per 1 miliardo, quando la Cdp stessa nel complesso aveva un capitale sociale 3,5 miliardi. Ma in quel momento la cassa aveva una massa di beni, un patrimonio, che valeva più di quella cifra, valutata dall’economista Alessandro Penati, cui i legali fanno riferimento, circa 6,5 miliardi. Basarsi sul valore economico, più alto, (non sul quello sociale) ha due conseguenze. La prima è che per capire la partecipazione delle fondazioni bisogna sottrarre all’attuale valore della Cdp, 15,6 miliardi, i 6,5: 9 miliardi circa. Così il 30 per cento sarebbe 2,7 miliardi. La seconda conseguenza, più importante, è che in questo modo al 30 per cento di capitale privilegiato corrisponde una quota inferiore di capitale ordinario, pari al 16 per cento (la metà). Per effetto di questo ragionamento, le fondazioni avrebbero una diluizione sul conguaglio, pagando di conseguenza meno del previsto per la conversione, circa 1,4 miliardi. L’ultima parola spetta al Tesoro.
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