Le interviste a Calvino, che scriveva per celarsi e ai giornali si svelava
Sì, certo, la letteratura. Ma i diari, le lettere, le autobiografie, le interviste, a volte sono meglio. Nella letteratura ci sono troppe intenzioni, troppe ambizioni, troppe finzioni: e non sempre le finzioni sono capaci di tenere in piedi un mondo sia ipotetico che reale in cui valga la pena di aggirarsi. A volte le finzioni sono truffe. Leggere per esempio le interviste in cui Calvino è costretto a parlare di sé è interessante non meno che leggere le sue opere di invenzione.
Sì, certo, la letteratura. Ma i diari, le lettere, le autobiografie, le interviste, a volte sono meglio. Nella letteratura ci sono troppe intenzioni, troppe ambizioni, troppe finzioni: e non sempre le finzioni sono capaci di tenere in piedi un mondo sia ipotetico che reale in cui valga la pena di aggirarsi. A volte le finzioni sono truffe. Leggere per esempio le interviste in cui Calvino è costretto a parlare di sé è interessante non meno che leggere le sue opere di invenzione.
Calvino era uno scrittore naturalmente (forse nevroticamente) inventivo nel senso che aveva bisogno di inventare storie fantastiche perché aveva bisogno, prima, di mettere da parte se stesso e la propria biografia. Lo spiega Luca Baranelli, ottimo curatore del volume di interviste 1951-1985 “Sono nato in America…” (Mondadori, 668 pp., 25 euro): “Per sua stessa ammissione, la contrarietà e il fastidio che Italo Calvino manifestò più volte, talora in modi bruschi, verso la biografia e l’autobiografia erano ambivalenti e ‘nevrotici’”.
Quest’ultima è una parola che Calvino non avrebbe usato volentieri, la sua nevrosi si manifestava (se era nevrosi e non un semplice tratto caratteriale) proprio nel rifiuto, nel fastidio per la psicologia, per l’io, il superio, ecc., con tutta l’attenzione concentrata e la sopravvalutazione dei propri conflitti interni, nelle proprie passioni segrete e angosce sociali, prese come misura e mezzo per conoscere il mondo. Ci sono autori che scrivono per esprimersi e rivelarsi (soprattutto i poeti), altri per elaborare e sostenere le proprie idee (i saggisti), altri ancora scrivono piuttosto per nascondersi e questo è più facile se si inventano storie.
Fastidio per la psicologia, ma fastidio anche, in Calvino, per il romanzo, per la sua mole, il suo ingombro e per l’atto stesso di mettersi lì con l’idea di scrivere un romanzo: progettare di scriverlo, poi entrare in crisi, poi non riuscire a fare altro, convivere a lungo con un prodotto incompiuto e che rischia anche di restare tale. Meglio il racconto. Calvino amava il prodotto finito, compiuto, e un racconto lo si finisce presto.
Questo non vuol dire che fosse capace di scrivere in fretta e con felice facilità. Diffidava (tra le molte cose di cui diffidava) degli scrittori abbondanti, fluenti. La sua scrittura, così vicina al parlato e sempre così poco intellettualistica anche nei saggi, era il frutto di un lavoro attento, di precisione, che mirava a realizzare una prosa anzitutto comunicativa e quindi più vicina possibile a un parlato possibile, ipotetico, magari utopico. Un parlato preciso, sottoposto a potatura, sfrondato, un’alleanza di naturalezza e precisione. Credo che Calvino abbia imparato più da Carlo Levi che da Cesare Pavese, scrittori che amava entrambi. (L’influenza di Carlo Levi è stata più vasta e varia di quanto oggi si pensi e andrebbe studiata: la si sente sia in Calvino che in Pasolini, nella Morante, in Volponi e in forme più indirette e mediate anche in Carlo Ginzburg e nella sua idea di “microstoria”).
Nel suo saggio introduttivo, Mario Barenghi (che di Calvino è forse oggi il migliore studioso) dice che la cosa più banale che si può fare con un libro di interviste è “spigolare citazioni”. Sarà vero. Ma la cosa più banale è anche quella più istintiva per qualunque lettore: non essendo un lettore qualunque, Barenghi non può permetterselo, ma io sì. Il volume è tale che non si può leggere tutto di seguito, lo si leggerebbe male, nel modo sbagliato e si finirebbe per nuocere sia al libro che a se stessi: ascoltare per venti ore conversazioni di Calvino una dopo l’altra, sarebbe una specie di castigo.
Su cento interviste contenute nel volume, ne ho lette, per ora, una decina ed è stato un vero piacere. Calvino era così laconico e ritroso nel parlare di sé che quando lo fa la curiosità aumenta. L’intervista è un genere letterario e un genere critico minore: è insieme il più fortunato (giornalisticamente) e il più negletto, dice Barenghi proponendo di studiare meglio le sue tecniche e le sue ascendenze nobili: per esempio il dialogo. Sui giornali sapere che cosa pensa uno scrittore è di per sé una notizia, introduce nella routine dei “fatti del giorno” un tono e una dimensione diversi, in cui si sovrappone il punto di vista prezioso di chi riflette in solitudine, per vocazione, e il punto di vista della persona comune e privata. In un’intervista del 1960 per France-Observateur Calvino è interrogato sul suo “Barone rampante”, che “sta in alto ma anche in basso”, dice l’intervistatrice. E lui risponde: “Ma è l’unico modo di essere. La distanza, ecco quello che conta. Bisogna distanziarsi senza per questo abbandonare la lotta. (…) Il mio Barone sugli alberi: è così che vorrei vedere l’intellettuale impegnato”.
Nella quantità di detti memorabili, opinioni forti o giudizi semplicemente utili, ricordo almeno questi: “La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, per anni la politica ha avuto un’importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante cose. Ma questa passione civile ha dato un’ossatura alla nostra formazione culturale; se ci siamo interessati di tante cose è stato per quello. (…) Tra i giovani che sono venuti dopo di noi negli ultimi anni, in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri” (1960).
“Ho imparato ad apprezzare le delizie dello scrivere su commissione, quando mi chiedono qualcosa per una destinazione definita, anche modesta. Almeno so per certo che c’è qualcuno cui ciò che scrivo serve. Mi sento più libero, non c’è la sensazione di imporre ad altri una soggettività di cui nemmeno io sono sicuro. Credo nell’assoluto e necessario individualismo dello scrivere, ma perché funzioni deve essere contrabbandato in qualcosa che lo neghi, o almeno lo contrasti” (1978).
Economo e prudente, Calvino era nemico della chiacchiera, gli sembrava approssimazione e spreco. Non è sempre così. Qui per fortuna anche lui chiacchiera e lo fa benissimo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano