
“Genio”, ovvero come rendere spassoso il dietro le quinte di un film
Il cinema è un divertimento quando lo si trova bello e fatto. Un po’ meno quando bisogna scriverlo, trovare i denari e girarlo (fate conto: mesi, se non anni, di fatiche, riunioni, riscritture, attese, rinvii, incidenti, capricci, rancori, sgambetti, attori che vanno, vengono e protestano). Per rendere spassoso il dietro le quinte serve un romanziere, o almeno un addetto ai lavori, che scriva le proprie memorie con sincerità e giusto cinismo, lasciando nel dizionario la parola Arte. Meglio ancora, se uno ha la penna di Patrick Dennis, grandioso quando raccontava le imprese di “Zia Mame”, e bravissimo a tagliare via le parti noiose quando in “Genio” narra l’esilio messicano del regista un tempo famoso di nome Leander Starr.
Il cinema è un divertimento quando lo si trova bello e fatto. Un po’ meno quando bisogna scriverlo, trovare i denari e girarlo (fate conto: mesi, se non anni, di fatiche, riunioni, riscritture, attese, rinvii, incidenti, capricci, rancori, sgambetti, attori che vanno, vengono e protestano). Per rendere spassoso il dietro le quinte serve un romanziere, o almeno un addetto ai lavori, che scriva le proprie memorie con sincerità e giusto cinismo, lasciando nel dizionario la parola Arte. Meglio ancora, se uno ha la penna di Patrick Dennis, grandioso quando raccontava le imprese di “Zia Mame”, e bravissimo a tagliare via le parti noiose quando in “Genio” (appena uscito da Adelphi) narra l’esilio messicano del regista un tempo famoso di nome Leander Starr. Titoli accreditati, il colossal biblico “Rut nel grano altrui” e un documentario sui pigmei che in quell’epoca felice e spensierata si poteva ancora battezzare “Negretti”. Punto. Risata. A noi fa questo effetto. Non crediamo di esser soli, anche se l’orecchio per la scrittura è più raro dell’orecchio musicale (senza contare che certi scrittori non sanno produrre un titolo decente da piazzare in copertina, figuriamoci quelli che stanno nelle pagine interne). “La valle degli avvoltoi” è invece il work in progress, classico ripiego di un regista che si trova con l’agente della tasse alle calcagna, ha una cassa di appunti disordinati, e per rimettersi in pista decide che girerà “un gioiellino di disperazione in bianco e nero”.
Niente trucco e parrucco, riprese in esterni con luce diurna, montaggio casalingo, regista che funge anche da segretaria di edizione (o se no, l’incarico tocca allo sceneggiatore, così impara a stare sempre sul set mettendo becco). Due settimane di lavorazione in mezzo al deserto, attori presi dove capita: le regole di castità cinematografica del Dogma 95 erano già stabilite prima che Lars von Trier cominciasse l’asilo. Quando era in soldi, e poteva lavorare negli Stati Uniti, Leander Starr pretendeva champagne millesimato invece del solito ginger ale, in nome dell’autenticità. Chiedeva navi vere da far saltare in aria al posto dei soliti modellini. Niente ketchup: voleva sangue vero a cento dollari al litro, gruppo sanguigno coordinato a quello degli attori (negli stessi anni Luchino Visconti faceva riempire gli armadi di sete e lini ricamati, ben sapendo che nessuno degli attori li avrebbe aperti mai). Girava chilometri di pellicola per ricavarne qualche smozzicata scena, montarla in spregio alle regole del campo e controcampo, e il risultato veniva incensato come arte (qui Patrick Dennis merita un credito come sceneggiatore ombra di Woody Allen, e del regista cieco che fa danni in “Hollywood Ending”). Tra i finanziatori, un’arrampicatrice sociale in Cadillac fucsia di nome Clarice Worthington Pomeroy, “decollata dalla sedia della segretaria” e così noiosa che gli invitati, mezz’ora prima del ricevimento, sono colpiti da raffreddori, mal di pancia, varie virulenze.
Sopravvive in salute e si presenta al buffet solo “un’orda di vecchie arpie, ognuna delle quali fu categorica nell’affermare di essere la vera Zia Mame”. Leander Starr ha qualcosa di Orson Welles, regista che girò una scena del suo “Othello” in una sauna marocchina perché il costumista voleva essere pagato in anticipo. Il narratore, arruolato come sceneggiatore del finto film, è Patrick Dennis medesimo (in crisi di ispirazione, e incline più che mai all’alcol e alle bizzarrie: qualche anno dopo in Messico ci andrà a vivere davvero). Aveva sperimentato, prima che la sperimentassimo noi, una delle più pervicaci epidemie di identificazione letteraria mai registrata. Chiunque leggesse “Zia Mame”, purché di sesso femminile e di età post adolescenziale, era convinta di essere Zia Mame. E’ un dettaglio, minuscolo ma al pari degli altri spassoso, di questa scorribanda tra ricchi nullafacenti, attrici indigene di un solo film, scrittori che per campare fanno la pubblicità al lassativo Favolax, signore dal trucco pesante che rassomigliano al mimo Marcel Marceau.


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