Arriva il 18° Congresso

Chi è il liberista cinese che entrerà nel Comitato centrale del Politburo

Matteo Matzuzzi

Il prossimo 8 novembre, in una Pechino addobbata con striscioni inneggianti all’armonia sociale e gigantesche composizioni floreali – ma blindata per il timore di “azioni sovversive” (sarà impossibile comprare persino i coltelli da cucina) – migliaia di delegati delle più remote province del paese confluiranno nella capitale per tracciare la rotta politica, economica e sociale del prossimo decennio. Si devono rinnovare le cariche istituzionali, dal Politburo al Comitato centrale, il vero organo di governo della Repubblica popolare.

    Roma. Il prossimo 8 novembre, in una Pechino addobbata con striscioni inneggianti all’armonia sociale e gigantesche composizioni floreali – ma blindata per il timore di “azioni sovversive” (sarà impossibile comprare persino i coltelli da cucina) – migliaia di delegati delle più remote province del paese confluiranno nella capitale per tracciare la rotta politica, economica e sociale del prossimo decennio. Si devono rinnovare le cariche istituzionali, dal Politburo al Comitato centrale, il vero organo di governo della Repubblica popolare. La transizione non è stata indolore, le lotte tra fazioni e correnti della nomenclatura sono emerse in tutta la loro forza. Candidati che fino a un anno fa sembravano ormai prossimi a entrare nella ristretta cerchia dell’élite al comando sono stati epurati, cancellati ed espulsi con infamia dal Partito, come nel caso di Bo Xilai, il potentissimo ex segretario a Chongqing. Tra i promossi – molti dei quali legati alla vecchia guardia dell’ottantaseienne ex presidente Jiang Zemin, secondo il solitamente bene informato South China Morning Post –, ci potrebbe essere Wang Qishan, attuale vicepremier con delega all’economia, energia e affari finanziari che fino a qualche mese fa era in lizza per diventare primo ministro cinese al posto di Wen Jiabao, che dopo un decennio lascerà l’incarico. Alla fine la spunterà Li Keqiang e Wang si dovrà probabilmente accontentare di uno dei sette posti nel Comitato centrale del Politburo.

    Questo sessantaquattrenne funzionario sempre sorridente e affabile si è conquistato negli anni la fama di problem solver, l’uomo da chiamare in causa quando ci sono emergenze da risolvere. E’ stato lui a preparare al meglio Pechino per le Olimpiadi del 2008, anche perché nove anni prima aveva dimostrato di sapere maneggiare dossier spinosi. E’ il caso del fallimento della Guandong International Trust and Investment Corp nel 1999, il più grande istituto finanziario del paese. Mai prima di allora la Cina aveva visto una bancarotta così grande. Quando i creditori stranieri si presentarono davanti a Wang chiedendogli come recuperare i 4 miliardi di dollari persi nel crac, lui rispose tranquillo: “Il principio fondamentale di un’economia di mercato è che i vincitori vincono e i perdenti perdono”. Un fallimento è un fallimento, e lo stato non ci può fare niente. Non può studiare e varare piani di salvataggio per ogni azienda o società incapace di salvarsi da sola. Non a caso, il Financial Times ha definito le sue parole come una grande lezione di laissez-faire economico. Wang Qishan è considerato il grande amico dell’America, l’uomo che a partire dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008 ha lavorato a stretto contatto con Washington, sia con i repubblicani sia con i democratici. “Wang è un patriota, ma capisce le ragioni degli Stati Uniti e sa che i nostri due paesi beneficiano reciprocamente dei rispettivi successi economici”, disse l’ex segretario al Tesoro di George W. Bush, Henry Paulson. “Ha avuto coraggio nell’affrontare la crisi, ha compiuto scelte che mai nessuno prima di lui aveva preso in considerazione. E ha avuto successo”, aggiunse Paulson.

    La filosofia del libero mercato cinese
    Wang Qishan è il teorico della nuova filosofia economica cinese, quella che si è liberata dei legami con la dottrina socialista cara a Mao Tse Tung e che ha abbracciato il libero mercato. Nel 2009, in un editoriale pubblicato sul New York Times, scriveva che “la liberalizzazione del mercato è il motore della crescita economica”. Il protezionismo – che per il responsabile dell’economia cinese è il male assoluto, invece, provoca solo problemi: “Favorisce il singolo rispetto alla collettività, e ciò provoca ritorsioni pericolose”. La Cina del terzo millennio guarda al libero scambio, sulla scia dell’insegnamento di Jiang Zemin, che nel suo libro “Che cos’è l’economia di mercato” del 1993 scriveva che “il socialismo dalle caratteristiche cinesi” può usare i meccanismi economici del capitalismo.
    Nell’ultimo anno la crescita cinese ha subito un rallentamento, con il pil che nel terzo trimestre ha registrato un incremento del 7,4 per cento, il dato più basso dall’inizio del 2009. Per Ian Bremmer, presidente del centro studi americano Eurasia Group, è il segnale che il capitalismo di stato inizia a mostrare qualche crepa: “Solo mercati davvero liberi sono in grado di generare una prosperità diffusa, sostenibile e duratura nel lungo periodo”, aveva scritto nel suo libro “La fine del libero mercato”, pubblicato nel 2010. L’onere di smentire Bremmer spetta alla prossima generazione di leader, quella guidata da Xi Jinping e Li Keqiang.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.