L'indifferenza dei Paperoni
Hanno evidenziato i difetti dell’altro. Hanno spiegato ai cittadini perché è meglio non votare per l’avversario. I programmi per i prossimi quattro anni sono dunque passati in secondo piano e ha prevalso la hybris personale. Eppure i problemi si presenteranno, comunque, dopodomani. Sia per il presidente in carica Barack Obama, sia per il candidato repubblicano Mitt Romney. Allo stesso modo.
Roma. Hanno evidenziato i difetti dell’altro. Hanno spiegato ai cittadini perché è meglio non votare per l’avversario. I programmi per i prossimi quattro anni sono dunque passati in secondo piano e ha prevalso la hybris personale. Eppure i problemi si presenteranno, comunque, dopodomani. Sia per il presidente in carica Barack Obama, sia per il candidato repubblicano Mitt Romney. Allo stesso modo.
L’establishment economico nazionale ha infatti una certezza: il principale problema da affrontare è l’aumento del deficit pubblico, con un incremento delle tasse o una riduzione della spesa non importa. E non importa chi lo farà, purché lo faccia. E’ questo il senso del manifesto firmato da ottanta ceo ovvero amministratori delegati (ceo com’era Romney), di altrettante corporation americane. “Sanare il debito” è la campagna che ha coinvolto alcuni tra i più ricchi imprenditori statunitensi (AT&T, Honeywell, Motorola) per fare pressione sul Congresso perché allevi il peso di un debito da 11 mila miliardi di dollari e sterilizzi gli effetti del “fiscal cliff”. Questione di pragmatismo bipartisan sia per chi ha sostenuto la campagna di Obama sia per quelli di Romney, che pure ha ricevuto più finanziamenti dalle società di Wall Street. Ma ci sono altre ragioni per cui anche altri assi della finanza americana sembrano indifferenti al bianco o al nero. L’ultrasettantenne George Soros, fondatore del fondo speculativo Quantum, ad esempio, è intervenuto in tempi non sospetti, a gennaio, prima che la campagna entrasse nel vivo: “Non c’è molta differenza tra loro se non per le masse di persone che riescono a spostare”, ha detto Soros aggiungendo che “l’Amministrazione Obama è esaurita, e non è più così forte”.
L’aggressivo finanziere (noto come colui che sconfisse la Banca d’Inghilterra vendendo 10 miliardi di sterline in un giorno) si attendeva perciò una campagna “più civile” del solito, meno feroce, facendo però notare che lo scontro sarebbe stato più acceso con gli sconfitti Gingrich o Santorum come vice di Romney. Come Soros, Warren Buffett non nasconde di sostenere Obama. Eppure anche il presidente supermiliardario della conglomerata Berkshire Hathaway ha affermato che “l’economia si metterà meglio sia con uno sia con l’altro”. La differenza tra loro sta nel come affrontano le questioni sociali, ma quando si parla di soldi gli Stati Uniti “stanno facendo graduali progressi in avanti” e li faranno in ogni caso. Non tutti gli ultra miliardari sono però indifferenti al risultato elettorale. Alcuni, ha scritto il settimanale New Yorker, covano rancore nei confronti di Obama che li ha messi alla gogna. I capitalisti dell’1 per cento si sono incontrati alla cena della SkyBridge Alternatives Conference di Las Vegas nel maggio scorso. Lì Leon Cooperman, avversario di Buffett, ex della banca d’affari Goldman Sachs e fondatore della società di consulenza Omega, ha pregato Al Gore di leggere una lettera che ha scritto per Obama, il presidente che ha combinato un “disastro economico”: “Il capitalismo non è l’origine dei nostri problemi, i capitalisti non sono quel flagello che volete fare sembrare”. Il magnate nato e cresciuto nel Bronx ha le stesse idee di altri ultra ricchi, delle “cellule silenti” pronte a uscire allo scoperto. Meditano vendetta? Forse, da domani.
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