Fusione fredda

Francesco Forte

E’ difficile capire la logica economica della “fusione fredda” tra Intesa Sanpaolo e Unicredit, di cui ha parlato per primo Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera. Non aggiunge apprezzabili economie di scala o sinergie, essendo le due banche già grosse, diffuse territorialmente e articolate nei vari rami bancari e parabancari. La fusione non risolve i loro problemi patrimoniali: quantitativamente perché entrambe abbisognano di ulteriori capitali e qualitativamente perché entrambe hanno molti titoli del nostro Tesor.

    E’ difficile capire la logica economica della “fusione fredda” tra Intesa Sanpaolo e Unicredit, di cui ha parlato per primo Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera. Non aggiunge apprezzabili economie di scala o sinergie, essendo le due banche già grosse, diffuse territorialmente e articolate nei vari rami bancari e parabancari. La fusione non risolve i loro problemi patrimoniali: quantitativamente perché entrambe abbisognano di ulteriori capitali e qualitativamente perché entrambe hanno molti titoli del nostro Tesoro e, per di più, non hanno ancora digerito le loro fusioni interne. La tesi per cui la fusione impedisce che siano scalate dallo straniero non regge, perché in Intesa Sanpaolo c’è un pacchetto di comando delle fondazioni bancarie sufficiente a impedire l’Opa, mentre Unicredit è ben poco scalabile data la presenza nel suo capitale di molti fondi di investimento assai liquidi. Invece l’operazione potrebbe avere una logica politica. Infatti, mentre in Intesa Sanpaolo le fondazioni bancarie detengono il 22,5 per cento, e con Generali superano il 25,5 per cento, in Unicredit le fondazioni posseggono solo il 15 per cento come i fondi sovrani (quello di Abu Dhabi Aabar con oltre il 6 per cento, il russo-britannico Pamplona con il 5 e i tre libici con un altro 6). Aggiungendo poi BlackRock e Capital Research, i fondi esteri hanno il 21 per cento, e sommati con Allianz arrivano al 23. Ora Unicredit fa parte del gruppo A del patto di sindacato che controlla Mediobanca, con una quota dell’8,6 per cento e ciò, in ricaduta, comporta il controllo di Rcs, Pirelli, Telecom Italia e Generali, che partecipa al gruppo B del patto di sindacato che controlla Mediobanca. Poiché il valore patrimoniale delle due grandi banche è di circa 20 miliardi per ciascuna, una fusione paritetica vedrebbe complessivamente una quota delle fondazioni bancarie più Generali al 20,5 per cento che, compattata, potrebbe costituire il gruppo di comando.

    Dunque il progetto di fusione fa parte delle logiche di potere derivanti dall’intreccio fra politica-finanza-industria-editoria. E qui emerge la crisi del modello delle fondazioni. Nel caso di Intesa esse non sono più in grado di sottoscrivere cospicui aumenti di capitale. E ne consegue il dilemma fra rinunciare al controllo della banca che originariamente possedevano o consentirne uno sviluppo adeguato mediante il mercato azionario o altri intrecci. Nel caso di Unicredit, il dramma invece si è già quasi concluso. Lì il modello delle fondazioni bancarie non può esistere nel lungo termine e nel contesto di un mercato globale: la fondazione bancaria può accrescere il capitale solo non reinvestendo gli utili, ma come ente del territorio è obbligata a distribuirne una fetta rilevante per adempiere al suo compito. E la fusione della “sua” banca con altre, comandate da altre fondazioni, ha un limite nell’entità dei loro possessi e nelle rivalità locali, mentre il mercato ha una sua specifica logica che vale anche per le banche.