La Cina avrà un presidente chic e d'apparato

Matteo Matzuzzi

Non basta essere sposato con la popolarissima cantante folk Peng Liyuan, essere amico del vicepresidente americano Joe Biden e aver viaggiato molto nel mondo per diventare la grande speranza riformista della Cina del Terzo millennio. Xi Jinping, prossimo presidente della Repubblica popolare (salvo colpi di scena dell’ultima ora sempre possibili), è un uomo dell’apparato, prudente e che conosce alla perfezione la macchina del Partito comunista che domani celebrerà il suo diciottesimo Congresso.

    Roma. Non basta essere sposato con la popolarissima cantante folk Peng Liyuan, essere amico del vicepresidente americano Joe Biden e aver viaggiato molto nel mondo per diventare la grande speranza riformista della Cina del Terzo millennio. Xi Jinping, prossimo presidente della Repubblica popolare (salvo colpi di scena dell’ultima ora sempre possibili), è un uomo dell’apparato, prudente e che conosce alla perfezione la macchina del Partito comunista che domani celebrerà il suo diciottesimo Congresso. Nell’unica intervista concessa a un giornale, il magazine cinese Zhonghua Ernü nel 2000, Xi Jinping – all’epoca governatore della provincia di Fujian – lodava l’importanza della leadership collettiva rispetto a quella individuale. Prendere in mano la Cina e portarla sulla strada del riformismo non è all’ordine del giorno né nelle corde del successore di Hu Jintao, che avrà bisogno di almeno due-tre anni per consolidarsi. Eppure, di riforme in Cina ci sarebbe grande bisogno, spiega al Foglio Giovanni Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino e vicepresidente di T.wai (Torino World Affairs Institute): “Crescendo, l’economia cinese ha creato gravi danni ambientali, sanitari e sociali. Si è trattato di una crescita diseguale, e questo ha provocato malcontento nella popolazione. Non a caso, il numero delle proteste è passato da 8.700 casi nel 1993 ai 230 mila di oggi, anche se le statistiche dell’ultimo periodo non sono ufficiali”.

    La crescita economica tanto sbandierata dalle autorità, poi, “è in realtà più contenuta, le cifre sono in parte gonfiate, tant’è che puntualmente a ogni trimestre vengono ritoccate al ribasso”, dice. Fare riforme con l’economia che non galoppa più come nell’ultimo decennio è difficile: “La sfida che ha davanti la prossima leadership è ardua. Tutti si attendevano che Hu Jintao e Wen Jiabao, soprattutto nel loro secondo mandato, potessero approfittare della crescita record per avviare le riforme necessarie. Invece nulla di tutto questo è avvenuto, anche perché – e lo stiamo capendo ora – Hu Jintao aveva un controllo molto parziale del Comitato centrale”. D’altronde, “se è vero che l’ex presidente ottantaseienne Jiang Zemin è influente ancora oggi nel Partito, è lecito pensare che sia stato ben più incisivo negli scorsi anni”, aggiunge Andornino. Se Pechino non è riuscita a cambiare rotta nell’ultimo decennio, quando ne aveva le possibilità ed era spinta dal successo finanziario, è probabile che non lo farà neppure da qui al 2022: “C’è la necessità di compiere scelte politiche decise e chiare, e questo la nomenclatura alla guida del paese non è in grado di farlo. Sono troppi gli interessi in gioco. Inoltre, al momento non è credibile che Xi Jinping possa cambiare le cose da solo, anche perché fa pur sempre parte di una leadership collettiva e non individuale”.

    La svolta liberista rimarrà una chimera
    Nonostante la situazione non sia più rosea e il malcontento nelle periferie stia crescendo, “siamo profondamente lontani da svolte liberali”, spiega il nostro interlocutore. Neppure rivolte su larga scala sono immaginabili, dal momento che “le autorità centrali sono percepite dalla popolazione come affidabili. Il disagio e l’insoddisfazione si concentrano sulla dirigenza locale, accusata in molti casi di essere coinvolta in episodi di corruzione, e da Pechino cavalcano questa percezione facendo passare il messaggio che il problema non è del sistema in quanto tale, ma delle persone fisiche che del sistema fanno parte”, spiega Andornino. “Si scarica l’onere della colpa sul singolo dirigente locale, nel pieno rispetto della massima maoista ‘colpirne uno per educarne cento’”. Le marce e le dimostrazioni di malcontento “sono per lo più fenomeni di protesta per istanze di tipo localistico, mai contro l’autorità centrale”. Bo Xilai, l’ex potentissimo segretario del partito a Chongqing, è l’esempio di come un leader locale in forte ascesa possa essere epurato per fermare il rischio di derive personalistiche, che preoccupano da sempre un partito “che è in crisi dal punto di vista ideologico”, dice Andornino, aggiungendo che “la bancarotta del socialismo reale è palese”. Eppure, il Partito comunista cinese si conferma una formidabile macchina operativa: “I giovani fanno di tutto per entrare a farne parte, molti convinti di combattere una giusta causa per le loro province. Altri, invece, vedono nel partito un’occasione per fare carriera”. Si tratta comunque di un’élite e non è vero che tutti sono membri del Pcc: “Ha 80 milioni di tesserati, una cifra che a noi sembra elevata, ma se pensiamo che la popolazione complessiva è di più di un miliardo di abitanti, comprendiamo che è il Partito che ti sceglie e che ti seleziona e non il contrario”, spiega il docente dell’Università di Torino. “Dopotutto, i funzionari comunisti sono sempre pronti a ricordare che è il Partito ad aver dato alla Cina, nel 1949, la modernità da sempre vanamente cercata”.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.