Precipizio degli addii

Umberto Silva

Come foglie d’autunno, pere marce o meteoriti, cadono gli dei attorno a noi comuni mortali che di loro ci crediamo migliori, se non altro per essere ancora vivi, per non avere volato così in alto da dover cadere tanto in basso. Cadono gli dei sanguinari ma anche quelli che il sangue hanno in orrore, cadono gli dei romantici, quelli buffi e quelli che pensavano che mai sarebbero caduti, e ci fanno ridere, un pochino, quando dobbiamo sfangare la giornata e l’immagine di un potente che all’improvviso scoppia fa piacere.

    Come foglie d’autunno, pere marce o meteoriti, cadono gli dei attorno a noi comuni mortali che di loro ci crediamo migliori, se non altro per essere ancora vivi, per non avere volato così in alto da dover cadere tanto in basso. Cadono gli dei sanguinari ma anche quelli che il sangue hanno in orrore, cadono gli dei romantici, quelli buffi e quelli che pensavano che mai sarebbero caduti, e ci fanno ridere, un pochino, quando dobbiamo sfangare la giornata e l’immagine di un potente che all’improvviso scoppia fa piacere. Cadono per ingordigia senza fine, Napoleone di uomini morti Strauss-Kahn di donne vive, cadono perché nel loro miraggio di gloria quel che fin da subito bramano e per contorti versi assaporano, è la caduta. Il successo, la gloria, il potere, non sono che il trampolino per il fatale balzo in cui finalmente incontrano qualcosa più forte di loro, qualcosa cui non sanno, non possono e non vogliono resistere. Scalano le vette solo per lanciarsi giù, allora incontrano… la felicità? Non esageriamo, la perplessità. Napoleone fu perplesso a Sant’Elena, Strauss Kahn lo è ora che cammina strisciando lungo i muri. Costoro che si credevano dei e si sono sforzati d’esserlo, e tanti li hanno proclamati tali, incontrano quel Dio che atterra e suscita, assaporano il sollievo di non essere soli in un mondo di gente fatta su misura per i loro vizi. La caduta è il paradiso degli dei. 

    Ognuno ha i suoi dei, ognuno piange i propri caduti. O ride, o comunque li pensa, affascinato dal loro mistero, invidioso, identificato con essi o con i loro assassini, pronto a scimmiottarne le audaci o miserabili gesta. Un dio cui spesso mi viene da pensare è Alcibiade, l’enfant prodige, ma anche assai prodigo, amato da Socrate e dalla fortuna, che per estrema competizione con gli altri dei si giocò l’amore piuttosto avventato degli ateniesi decapitando, prima di partire per la guerra, le ermetiche statue, testa e fallo del dio Hermes. Da quel momento fu tutto un vendersi al migliore offerente, anima e corpo, incarnando così un dio mercuriale e finendo in malo modo, sempre coraggiosamente. Alcibiade, un dio che sarebbe potuto restare tale molto a lungo solo se non avesse mosso un dito e invece preferì cadere ma non del tutto, amò strisciare, mendicare, fuggire, prostituirsi. Fece gola a filosofi e a tiranni, non morì giovane come avrebbe dovuto ma tirò a campare, emanando intorno a sé una luce impropria, suscitando speranze che poi si mostrarono vane, promesse non mantenute, lutti e amori che finirono nel nulla, un angelo sempre in caduta libera, che ci costringe a chiederci da che parte stesse, cosa veramente pensasse, inafferrabile, modernissimo. Accecato come il suo avo Aiace, pupillo del lungimirante Pericle e altrettanto bello e ricco, Alcibiade rimase fedele all’orfanità dell’infanzia più che all’insegnamento della giovinezza, alla spada che lo privò del padre più che alla parola socratica. Amò Socrate, o almeno ammirò, come si ammira e si ama un dio da cui ci si sente lontani e che mai si diverrà, come si ammira colui che si tradirà. In battaglia, l’uno salvò all’altro la vita, si scambiarono i destini affinché restassero sempre quelli. Pericle morì lasciando un vuoto che Tucidide pretendeva non dovesse essere colmato, e demagogo sarebbe stato colui che avesse preteso di reincarnare quel grande che il celebre storico aveva eletto a suo dio e che una divinità superiore, la peste, aveva fatto cadere.

    Come i maligni dicono di Matteo Renzi, così allora dicevano di Alcibiade: un demagogo dalle false promesse e di nessun programma, come non fosse un grandioso programma quello di mandare a casa D’Alema e compagnia ma si volesse a tutti i costi il solito libriccino delle buone intenzioni con cui impiastricciarsi in tivù. Come Renzi viene beccato in convivio con un potente finanziere anglomilanese, così Alcibiade fu guardato con sospetto per le ambigue frequentazioni. Troppo ricco, troppo bello, troppo… troppo che? Troppo amato per qualcosa di cui ancora non aveva dato prova, e questo cieco amore è quello che si riserva agli dei, che finché non operano sono perfetti, come i giovani, poi la corruzione del fare, quella che scrive la storia di ciascuno, li rende troppo umani, mortali, veri, vivi, capaci…. Ma non più dei. Ecco perché Alcibiade volle cadere nella polvere, rotolarsi nel vizio, tagliare le marmoree teste divine, muovere gli ateniesi all’odio. Odiava gli dei, si odiava, detestava la perfezione, amava il fango, in cui si rotolò in un’interminabile caduta da cui a tratti fulgente si risollevò solo per potere di nuovo ricadere. Ma ancora più dei di lui furono gli ateniesi, veri capricciosi che un giorno innalzavano il loro idolo e la notte lo abbattevano, secondo l’umore, divinatori e avvinazzati, tiranneggiati non dai Trenta Tiranni ma dalla follia dei loro cuori.

    Fratello più dissennato di Alcibiade fu Nerone, un dio che propiziò la propria rovina per poterla cantare, un altro promettente giovanotto che aveva avuto per maestro il più grande intellettuale del suo tempo, Seneca. E’ una storia che si ripete nei secoli. Sembra che gli eredi vogliano farsi beffa del loro padre spirituale, umiliandolo con esibizioni di vita malvissuta; e quando decidono di diventare un dio, mandarlo a morte pare la prova ultima di un affrancamento dall’umanità per una bestialità vestita d’imperiale tunica. Gli dei sono spesso deicidi, ne sa qualcosa Platone invitato dal tiranno Dioniso e che dovette fuggire nottetempo, o Voltaire che avrebbe dovuto consigliare Federico II, o Diderot che tanto freddo prese alla corte di Caterina di Russia… Non la si spunta con gli dei, il cui massimo divertimento è di mettere in gabbia colui che crede d’impartire loro una lezione. Il sommo Racine perse il suo tempo a ritrarre quel mentecatto del Re Sole! Che spreco, che vergogna, che pagine infamanti. Eppure gli dei non cadono per la loro infamia quanto per la loro bontà. I parigini si vendicarono d’avere adorato e servito i criminali re di Francia accoppando l’unico buono e generoso tra costoro, Luigi XVI. Tutto questo per poter adorare due dei ancora più sanguinari dei precedenti, Robespierre e Napoleone. Che però si esibirono in memorabili cadute: l’uno ucciso dalla sua stessa divinità, la ghigliottina, l’altro caduto a Waterloo per via di fastidiosissime emorroidi che non gli permettevano di concentrarsi. Sorte leggermente più nobile per il suo pronipote a Sedan, sconfitto da un violentissimo attacco del battaglione prostata. Troppe cavalcate a vanvera. Breve parentesi: se Napoleone si fosse alleato con l’Austria contro la Germania, non avremmo avuto la prima e la seconda guerra mondiale, il comunismo, il nazismo, il fascismo. Forse nemmeno avremmo avuto l’Italia, la mafia, i partiti politici, il Grande Fratello, Grillo, Di Pietro… Immaginiamo un’Europa francoaustriaca, la Parigi di Monet, Renoir, Picasso, Proust, Colette, che sposa la Vienna di Hoffmanesthal, Roth, Kraus, Schiele: il paradiso. Napoleone II se ne accorse durante la battaglia di Solferino, quando davanti alla montagna di cadaveri ebbe la visione del futuro che ci aspettava, ma ormai era troppo tardi.
    Si cade per troppi avidi morsi, si cade per un bacio amoroso. E’ il caso del protagonista del romanzo di Kipling “L’uomo che volle farsi re”. Un avventuroso sergente britannico è eletto a dio, quel dio da sempre atteso da una popolazione di monaci tibetani, e saggiamente li amministra. Tutto va a meraviglia finché gli sorge un desiderio troppo umano, fare l’amore con una donna. Decide di sposare la più bella della tribù, ma giustamente costei teme il fallo di un dio; quando lui fa per baciarla, lo graffia con forza. Una goccia di sangue rivela ai monaci come il loro dio sia umano troppo umano, e lo espone alla vendetta. Li ha ingannati e morirà.

    Tanti anni fa lessi il libro e vidi il film di Huston interpretato da Sean Connery, e da allora questa caduta mi rimase più in testa di tutte le altre che ho incontrato nei romanzi e nei libri di storia, il mio pensiero andò spesso a quel tragico svelamento. Finché dal piacere di crogiolarmi in quell’immagine passai all’interrogarmi sul perché la privilegiassi. Adoravo i graffi delle unghie femminili? Nemmeno troppo. Ma una volta durante una lite una donna mi graffiò in modo irreparabile per almeno sette giorni, costringendomi a presentarmi alla mia convivente con il volto sfregiato. Il che produsse con costei una definitiva rottura che fortemente desideravo ma non riuscivo a compiere. Il graffio nuziale che aveva ucciso Connery mi aveva fatto rinascere a nuova vita, io ero l’uomo che aveva voluto farsi dio, mostrandomi perfetto maritino tutto falso, finché un benedetto graffio m’aveva fatto tornare uomo e libero. Così funzionano le cose nel mondo sotterraneo, così ci s’innamora della psicoanalisi che con gli dei gioca giorno e notte. Ma se vogliamo occuparci di un dio dal vasto seguito di fedeli, pensiamo al ciclista e filantropo Lance Armstrong, sa dio decaduto a diavolo che disperato arranca nel velodromo dei gironi infernali. Si spacciava per dio ma la sua fondazione per la lotta al tumore era solo copertura della criminalità, ora si dice. Quando un dio viene così violentemente smascherato, non posso fare a meno di mettermi nei suoi panni e pensare cosa farei al suo posto. Gardini si uccise. Lo si pensava grande industriale, eroe della libera impresa, invece aveva dilapidato tutto e in preda alla disperazione se la faceva con i mazzettari di stato e flirtava con la mafia, dicono, chissà. Non mi sarei mai ucciso nei suoi panni, sarei fuggito per mare con il Moro di Venezia e un simpatico equipaggio, mi sarei divertito a gabbare i poliziotti, sarei diventato un pirata. Gardini aveva un bel viso da corsaro, credo che si piccasse d’esserlo, i suoi raid sui mercati erano leggendari finché s’imbattè nell’argento che lo tradì.

    Ma chissenefrega, poteva dire; invece no, armò la pistola contro di sé. Chi temeva? Ci si uccide sempre perché non si sopporta uno sguardo, lo sguardo di qualcuno che crede in noi, per questo ci sentiamo sollevati via via che la vecchiaia dirada coloro che da noi si aspettano qualcosa. Armstrong però è messo ancora peggio di Gardini, che non si proclamò mai un dio, che neppure vinse l’America’s Cup, che non faceva il benefattore ma con una telefonata riusciva a procurare a una bella dama un tavolo nell’Harris Bar pieno zeppo. E’ costei a raccontarmelo tutta estasiata e a rassicurarmi che davvero era un dio. E io ci credo e la faccio felice, mai ostacolare la fede quando va a zonzo come una libellula. Mettersi invece nei panni di Armstrong è durissimo, ha distrutto sette Tour e un’infinità di cuori, molti dei quali però non mollano la presa e mai la molleranno, continueranno a credergli in eterno, lui che aveva i testicoli marci e riuscì a guarirli, e i testicoli sono l’avanguardia del corpo del ciclista, la zona più esposta e pericolosa e invece continuò. Questo già è un miracolo, sicché Armstrong comunque vada un po’ santo lo è, perché i testicoli sono sacri sono due, e lui li ha gettati sul tappeto verde, come dadi.
    Non sono un difensore strenuo di Armstrong, ma dei suoi testicoli sì, sono un po’ scisso, come ampiamente lo è lui e lo sono i suoi seguaci. E’ inevitabile: quando cade un dio i suoi fedeli si dividono. C’è chi contro ogni evidenza lo vede vivo, del tipo Hitler fuggito in Argentina e grazie alle clonazioni rinato in un mucchio di gente tra cui un signore che so io, e chi invece del dio prende il lutto, e gli è fedele nell’anima, e lo celebra in silenzio, lo commemora alle date giuste, privatamente ne tesse le lodi non scevre di qualche affettuoso rimbrotto. Altri, la maggior parte, appena possono si staccano e inveiscono contro il dio caduto e celebrano il nuovo dio, che magari ne è la reincarnazione più violenta e integralista. Non c’è trasformazione in tutto ciò ma trasformismo, non ci si è interrogati sulla propria responsabilità, non si è formulata un’autoaccusa ma si scarica tutto sul dio, assolvendosi in toto, soprattutto evitando di pensare, pronti a ripetere. Si sfregia il dio caduto per segnare una distanza, lo si appende a testa in giù invece di processarlo, perché la parola disturba e turba, chiama in causa, sprona a una riflessione sul proprio cammino. Scoprirsi consustanziali al tiranno nel momento che lo si uccide? Ammettere che in quegli anni Hitler e Stalin erano la stessa persona, quel Satana che si divise in due per confondere le acque e meglio imperare? Senza elaborazione del lutto, del proprio lutto, della delusione verso se stessi per avere atteso tanto, per essersi asserviti, non c’è libertà che tenga ma solo opportunismo, la peggiore della schiavitù perché a trecentosessanta gradi, pronti ad abbracciare ogni dio che ci garantisca l’immunità dal pensiero, dall’etica, dalla bellezza, dall’amore, dall’incontro con… Dio, non l’Unico ma l’Infinito, che ovunque sta, se in chi lo cerca c’è sguardo.

    Ma loro, gli dei, si sentono tali? Mica tanto, ma noi comuni mortali sì, e spesso. Anzi, più si è miserabili più ci si sente dei, perché basta un nonnulla per elevarci al cielo. Più che un dio colui che conquista la Casa Bianca credo si senta frastornato, carico di angosce, forse preferirebbe pescare merluzzi. Invece il suo cuoco si sente un dio quando prepara il couscous per il presidente. E quando si è costretti a sentirsi tale perché tutti ti urlano che lo sei, perché ti affacci alla porta della tenda e vedi un mare di eunuchi che s’inginocchiano davanti a te che sei un bambino di sei anni, come racconta Bertolucci nell’“Ultimo imperatore”? Chissà se davvero Pui Yi si sentì mai un dio, o piuttosto un eunuco. Ti senti un dio perché un intero popolo t’incorona con una corona di fiori, e ti unge di oli, e ti si inchina innanzi, e ti fa sedere sul trono, e ti offre le più belle donne, e canta in tuo onore e balla, e obbedisce a tutti i tuoi comandi e desideri, finché, l’alba avvicinandosi, un energumeno vestito da gran sacerdote ti afferra per il collo, ti denuda, ti stende su un tavolo e con le nude mani ti strappa il cuore offrendolo al dio sole, che si degni di sorgere, sospendendo per qualche ora l’angoscia del popolo azteco. Dio per una notte, quella che nella grotta delle meraviglie la misteriosa Madame di “Point de lendemain” concede al bel cavaliere.