
Le domande che non vanno mai poste a Franzen, scrittore e birdwatcher
Non puoi decostruire e spogliarti nello stesso tempo”, disse una fidanzata a Jonathan Franzen. Non fu il punto più alto della loro relazione, cominciata l’ultimo anno del college a un seminario di Teoria letteraria, ma certo contiene il seme della passione che lo scrittore di “Le correzioni” e “Libertà” nutre per il romanzo. L’interesse per la teoria finì prestissimo, sostituito da una fede incrollabile nella narrativa, rara anche tra i suoi colleghi che i romanzi li scrivono ma un po’ se ne vergognano, non sopportando la vitalità di una forma letteraria nata quando il mondo era tanto diverso da adesso.
Non puoi decostruire e spogliarti nello stesso tempo”, disse una fidanzata a Jonathan Franzen. Non fu il punto più alto della loro relazione, cominciata l’ultimo anno del college a un seminario di Teoria letteraria, ma certo contiene il seme della passione che lo scrittore di “Le correzioni” e “Libertà” nutre per il romanzo. L’interesse per la teoria finì prestissimo, sostituito da una fede incrollabile nella narrativa, rara anche tra i suoi colleghi che i romanzi li scrivono ma un po’ se ne vergognano, non sopportando la vitalità di una forma letteraria nata quando il mondo era tanto diverso da adesso. Se avessero letto Henry Fielding – quando all’inizio di “Tom Jones” spiega che il romanzo è un banchetto, e che l’ingrediente principale si chiama natura umana – smetterebbero di provare ad aggiustare quel che non è rotto, e probabilmente scriverebbero meglio. La frase fornì a Franzen qualche dritta anche sulle relazioni amorose, molto più ingovernabili della letteratura e più minacciose per il narcisismo di un fiammante BlackBerry (vale anche per l’iPhone: nella delicata materia l’opzione “Yes Apple, No Apple” non fa la differenza). Riassume quel che ha imparato nel primo saggio di “Più lontano ancora” – la raccolta è appena uscita da Einaudi – intitolato “Il dolore non vi ucciderà”. E’ il discorso tenuto nel 2011 ai neo laureati del Kenyon College. Prima di lui, aveva avuto lo stesso onore David Foster Wallace, che di Jonathan era molto amico e che torna spesso in queste pagine. Con l’orazione funebre, e con le ceneri sparse nella remota isola di Masafuera nell’oceano Atlantico: lì aveva fatto naufragio Alexander Selkirk, il marinaio che diede a Daniel Defoe l’idea per “Robinson Crusoe”.
Franzen sbarca sull’isoletta con zaino, tenda e poca attrezzatura. Cerca un po’ di pace dopo il lancio di “Libertà”, il suo secondo Grande Romanzo Americano, funestato da una tiratura finita al macero perché avevano stampato il file sbagliato e da un fan che durante una presentazione gli aveva rubato gli occhiali dal naso, con l’intenzione di chiedere un riscatto (poi cambiò idea). Poca roba, in fondo, rispetto alla botta di sfiga che aveva accompagnato “Le correzioni”, arrivato in libreria il dieci settembre 2001. Inseguendo il rayadito, un uccellino cileno che faceva palpitare il suo cuore di birdwatcher, si ritrova sotto la pioggia, su una roccia scivolosa, e gli torna in mente l’amico suicida.
Diciamo saggio, ma intendiamo “essai” alla maniera di Montaigne. Un misto di autobiografia, diario di lettura, indicazioni per la buona vita e sincerità sulle proprie magagne che rendono il libro irresistibile. Per noi, con l’eccezione di “Cieli silenziosi”, il lungo capitolo dedicato al birdwatching. E urta un po’ sapere che quando era in Italia per il lancio di “Libertà”, e noi ci eravamo messi in lista d’attesa per intervistarlo, lui passava il suo tempo incontrando ambientalisti e discutendo con i cacciatori.
Dovesse ricapitare, sappiamo cosa non chiedergli, avendo letto e annotato la conferenza su “La narrativa autobiografica”, ovvero le domande odiose che uno scrittore si sente fare (specialmente se racconta pranzi del Ringraziamento e Natali nel natio Midwest). Mai chiedere: “Quali scrittori l’hanno influenzato”. “Al momento attuale, mi sento influenzato soprattutto dai miei romanzi precedenti”, è la risposta, sfacciata e immodesta come il miglior Franzen che conosciamo. Mai chiedere: “Quando e come scrivi?”, dà l’impressione di non avere domande meno banali. Mai chiedere: “Anche i tuoi personaggi a un certo punto vivono di vita propria?”, risponde come Vladimir Nabokov: “I miei personaggi lavorano come schiavi nelle galere”. Con le persone risulta un pochino più difficile, ed è per questo che i romanzi danno più soddisfazione a chi li legge, oltre che a chi li scrive.


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