Sex and ayatollah
Se un antropologo marziano arrivasse in Iran allo scopo di carpire l’essenza dell’homo islamicus, un ambasciatore della Repubblica islamica d’Iran gli spiegherebbe che modestia e castità sono virtù imprescindibili per ogni buon rivoluzionario. La difesa della pubblica moralità è il presupposto su cui si fonda la salute sociale e non vi è minaccia più perniciosa all’integrità della nazione di quella rappresentata dal fascino femminile. Non è un caso – sarebbe edotto il marziano – che in farsi una bella donna possa essere descritta con locuzioni come “shahrashob”, una che porta confusione in città, o “fetneh angiz”, colei che porta le calamità.
Se un antropologo marziano arrivasse in Iran allo scopo di carpire l’essenza dell’homo islamicus, un ambasciatore della Repubblica islamica d’Iran gli spiegherebbe che modestia e castità sono virtù imprescindibili per ogni buon rivoluzionario. La difesa della pubblica moralità è il presupposto su cui si fonda la salute sociale e non vi è minaccia più perniciosa all’integrità della nazione di quella rappresentata dal fascino femminile. Non è un caso – sarebbe edotto il marziano – che in farsi una bella donna possa essere descritta con locuzioni come “shahrashob”, una che porta confusione in città, o “fetneh angiz”, colei che porta le calamità. Invitato a cospetto dell’ ayatollah Ali Khamenei l’ospite straniero capirebbe dopo lunghe elucubrazioni il senso dell’ammonimento “Ya rusari, ya tusari!”, copri la testa o prendi una botta in testa!. Le donne sono esseri pericolosi: lasciate a loro stesse sceglierebbero vestiti attillati, fumerebbero in pubblico, riderebbero forte e sorriderebbero troppo con gli occhi scuri resi ancora più scuri da molto mascara. Più attraenti sono, più pestilenziali diventano, chiarirebbe all’alieno l’ayatollah Kazem Sedighi. “Per colpa loro il nostro paese sperimenta sciagure terribili come i terremoti”.
L’hijab è un baluardo indispensabile contro il caos anche perché oltre ai terremoti le femmine si portano dietro altri disastri. Il marziano apprenderebbe che le donne sono tanto pericolose quanto fragili, il cavallo di Troia ideale delle seduzioni occidentali. “Più che l’artiglieria – ha spiegato Khamenei nel 2003 – i nostri nemici sanno di dover spandere i loro valori per corromperci. Ho sentito al telegiornale un funzionario di un importante centro politico americano dire: invece delle bombe mandategli le minigonne. Ha ragione. Se risvegliassero il desiderio sessuale in un paese, se uomini e donne si mescolassero senza impedimenti, se i giovani fossero incoraggiati verso comportamenti a cui naturalmente li riconduce l’istinto, contro quella nazione non ci sarebbe più bisogno di sparare nemmeno un colpo”.
Dopo tante autorevoli argomentazioni il marziano raggiungerebbe la sua camera d’albergo persuaso dal leader Supremo che in Iran persino una coppia sposata dovrebbe evitare di baciarsi in pubblico e che qualsiasi eccezione è sconsigliabile anche nel giorno del matrimonio. Tuttavia, se a quel punto gli venisse in mente di accendere la tv, controllare una manciata di siti internet e pubblicazioni di regime, nonché i pronunciamenti di riveriti ayatollah, il mondo puro e schivo disegnato dalle parole di Khamenei scoppierebbe come una bolla di sapone. Dopo aver ascoltato i “consigli per la salute” di certi mullah catodici il marziano potrebbe essere indotto a pensare che gli iraniani – inclusi i loro censori – muoiono dalla voglia di trasgredire ai loro divieti e che molte cose vietate si possono fare, basta avere l’accortezza di chiamarle con un altro nome. L’alieno converrà che l’Iran non è né Sodoma né Gomorra, ma il sesso è tutt’altro che un tabù e il regime un po’ scoraggia e un po’ incita avvicinandosi al buco della serratura.
Negli anni Ottanta tra bombe, razionamenti e feroci comitati rivoluzionari uno dei pochi passatempi concessi agli iraniani era un programma cult che andava in onda sul settimo canale della tv di stato. Protagonista della trasmissione era un religioso semisconosciuto, l’ayatollah Gilani, con le sue “deliziose”, così amava definirle, questioni teologiche. Il sesso era una costante nelle perle di saggezza di quello che fu soprannominato il “Gili show”. In una delle puntate di maggior successo l’ayatollah pose all’attenzione dei suoi telespettatori un’ipotesi surreale: “Immagina di essere un giovane uomo che dorme nel suo letto. Al piano di sotto, nella stanza esattamente sotto la tua, una zia giace addormentata. Ora immagina che arrivi un terremoto e che il tuo pavimento crolli di modo che tu cada esattamente sopra la zia. Supponiamo che siate entrambi nudi, che tu abbia un’erezione e che nel piombare sopra la zia si realizzi, non intenzionalmente, un rapporto sessuale. Il figlio generato da questo tipo di incontro è halalzadeh (legittimo) o haramzadeh (illegittimo)? In altre occasioni Gilani preferiva mettere in guardia i fedeli dall’alto della sua esperienza: “Oggi stavo per raggiungere gli studi televisivi quando ho visto una donna: indossava un chador, ma le sue calze non erano abbastanza spesse e i miei occhi sono stati rapiti dalle sue caviglie. Questo spettacolo mi ha turbato”.
Gli ayatollah paiono turbarsi con poco. “In presenza di uomini che non facciano parte della sua cerchia familiare a una donna è concesso di parlare ad alta voce solo se questo suono non causa eccitazione sessuale nei suddetti uomini”, scrive l’ayatollah Mosavi Ardebili nel suo “Trattato Pratico” o Towsihoule Masael. Il Trattato è un must nel curriculum di un ayatollah. Nessuna sfera della vita può essere esclusa dall’abbraccio dell’islam e queste guide filosofiche e giuridiche trattano anche tutta una serie di questioni piuttosto pratiche e mondane. Sebbene con meno gusto dell’ayatollah Gilani, anche il fondatore della Repubblica islamica, Ruhollah Khomeini, si è cimentato con interrogativi sorprendenti. “Se un uomo sodomizza il figlio, il fratello o il padre di sua moglie dopo il matrimonio, il matrimonio resta valido”, sostiene nel 1961. “Se una persona ha un rapporto sessuale con una mucca, una capra o un cammello – spiega nello stesso testo – l’urina e gli escrementi di questi animali diventano impuri e bere il loro latte illegale”. Ma se toccare temi triviali è tutt’altro che insolito nella tradizione sciita, la pervicace insistenza con cui gli epigoni del “Gili show” offrono la loro expertise nella sfera sessuale tocca punte di comicità involontaria e grottesca che fanno a pugni con l’immagine austera della rivoluzione.
C’è un canale satellitare sponsorizzato dal regime, l’Imam Reza Television, che tra un ricordo e l’altro dell’ottavo imam (Reza è l’ottavo imam sciita) ospita un mullah che a colloquio con un giornalista suggerisce agli uomini come gestire l’eiaculazione precoce e “altri problemi che agitano il talamo nuziale”. Nel documentario “The Iran Job” un giocatore di basket americano si trasferisce a Shiraz per giocare in una squadra iraniana. Sbarcato con comprensibili pregiudizi non riesce a capacitarsi di riuscire a catturare con la sua parabola più di 600 canali e che, tra questi, almeno 400 siano pornografia pura. La pornografia è un delitto spiegano i mullah ma le parabole abbattute un giorno rispuntano come funghi sui tetti quello successivo. Non resta che affidarsi alla prevenzione.
Al “sesso sano” e ai rituali di purificazione che dovrebbero fargli da corollario sono ispirati manuali su manuali prodotti da una varietà di soggetti – L’Associazione dei genitori e degli insegnanti e la Fondazione culturale per il messaggio islamico per esempio – ma anche blog che, partendo da fonti sacre, si prefiggono di “configurare il sesso nella società”, “arginare le relazioni sessuali malate”, illustrare “i danni della masturbazione” e “l’etica nel sesso”. Nel 2005 nella città santa di Qom è stato pubblicato un “Calendario di matrimonio” piuttosto esplicito. Al fine di custodire l’armonia coniugale si raccomanda di “evitare i rapporti sessuali in piedi perché ricordano quelli tra animali” e di “non dimenticare i preliminari prima della penetrazione”. L’Iran pullula di mullah-sessuologi pronti a offrire suggerimenti ai fidanzati durante gli obbligatori corsi prematrimoniali. I ragazzi sono abituati a parlare di sesso con gli adulti. Per le ragazze è diverso. In famiglia il tema spesso viene solo sfiorato (anche se poi, per proteggerle dalla polizia morale, molti genitori di città accettano di lasciare alle figlie tempo e spazio in casa da sole con i loro fidanzati) e parlare d’amore è già una conquista. Ci sono ancora nonne che sbuffano al solo sentire la parola e spiegano alle nipoti che “l’amore è un sentimento per cameriere”. La consulenza sessuale del mullah di turno è raramente una fonte di conforto. Nell’atmosfera irreale di una sensualità temuta, circoscritta, ma continuamente evocata, la donna porta sulla fronte una lettera scarlatta. Agli occhi del clero è animata da una passione incontrollabile e nei manuali il desiderio femminile è invariabilmente rappresentato come una forza distruttiva che è possibile governare solo grazie al riserbo (delle donne) e all’onore (degli uomini).
C’è stato un mullah che ha gettato uno sguardo apparentemente più benevolo “sui debordanti appetiti” delle iraniane. “Noi immaginiamo che sia un bene sopprimere i nostri istinti, sopportare la frustrazione ed essere pazienti nei confronti dei nostri desideri sessuali. Questo non è giusto. Al contrario è sbagliato”. Era il 1990, la guerra era finita da due anni, Khomeini era morto l’anno precedente, gli orrori della prima decade rivoluzionaria erano ancora vividi nella memoria e il presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani parlava dal pulpito dell’Università di Teheran a migliaia di fedeli e milioni di telespettatori. “Dio ha creato certi bisogni nell’essere umano e non vuole che vadano inascoltati”. Dove voleva andare a parare il Richelieu della nomenklatura, si chiedevano gli iraniani certi che il loro presidente non volesse invitarli a praticare il sesso tantrico a piazza Azadi? Il mistero fu svelato appena lo squalo Rafsanjani pronunciò la parola sigheh. Secondo la giurisprudenza sciita – ricordò il presidente – “il sigheh o matrimonio temporaneo può essere contratto da due adulti consenzienti che recitano un giuramento ‘a tempo’ prima di compiere l’atto sessuale”. Rafsanjani si sforzò di dare alla parola la più ampia valenza possibile. “Non è necessaria la presenza di un religioso affinché un matrimonio temporaneo possa essere ritenuto valido. La coppia può completare il contratto da sola, scegliere se vuole restare unita per un giorno, un mese, un anno”.
Giornali, radio, tv e pamphlet diffusi nelle moschee cercarono di presentare il sigheh come un’alternativa non peccaminosa alla masturbazione e alla prostituzione. Furono affissi poster negli uffici secondo i quali “il sigheh è il piacere più dolce delle donne musulmane”, “la miglior medicina per curare la passione”. I nemici accusarono Rafsanjani di inseguire “l’islam americano” e qualche analista si illuse che volesse invitare uomini e donne a superare lo steccato tra vita pubblica ortodossa e vita privata eterodossa, spingerli a tornare a darsi la mano nei parchi senza timore di offrire spiegazioni alle task force della moralità. Restaurare insomma un modicum di normalità prerivoluzionaria. Ma il sigheh era un’altra cosa: formalmente un tentativo per risolvere il problema delle vedove di guerra giovani, bisognose, ma meno desiderabili sul mercato matrimoniale perché non più vergini, di fatto, soprattutto, il tentativo di riportare in auge la poligamia.
Donne di regime come Azam Taleghani insorsero: “E’ evidente – disse – che dal momento in cui entra in gioco una seconda moglie, la prima è abbandonata, la sua vita rovinata. Ma i leader se ne infischiano, vogliono obbligarci ad accettare la poligamia”. Nei sigheh i diritti delle donne sono ancora più esigui che nel matrimonio tradizionale: il marito può rompere il contratto quando gli pare, per la moglie, invece, liberarsi dal vincolo è molto più complicato. Socialmente contrarre un sigheh è un pessimo biglietto da visita per una ragazza, ma capita che chi vuole partire per un viaggio con il fidanzato o chi non può permettersi i festeggiamenti di un matrimonio tradizionale ripieghi sul sigheh in attesa di tempi migliori. In questi anni di crisi è riemersa anche la figura equivoca del broker dell’amore, spesso un mullah, che attraverso la rete individua donne disperate a cui proporre weekend di sigheh con uomini dai capelli grigi e dal portafoglio pesante.
C’è un proverbio persiano che recita: “Segui quel che ti dice un mullah, ma non fare quello che fa”. Decine di barzellette mettono alla berlina le perversioni delle autorità clericali e donne scampate ai furori rivoluzionari raccontano di essere sopravvissute giocando sulle fantasie sessuali dei loro carcerieri. Ogni anno nella Repubblica islamica esplode uno scandalo a luci rosse che regola i conti tra fazioni rivali. Nel 2008 è stata la volta di Reza Zarei, temuto capo della polizia di Teheran colto in flagrante in un bordello in compagnia di sei prostitute. Nella primavera del 2009 il quartier generale della campagna di Mir Hossein Moussavi, lo sfidante di Mahmoud Ahmadinejad alle presidenziali, fu definito “un luogo per devianti che lottano per la libertà sessuale”, pochi mesi dopo volarono i proiettili e dirigenti e intellettuali affiliati all’onda verde furono incastrati con imbarazzanti prove di peccati sentimentali, alcuni come l’ex vicepresidente Mohammed Ali Abtahi non ressero alla vergogna e confessarono i loro delitti politici in penose sedute televisive.
I giovani sono meno preoccupati di difendere la loro onorabilità. Assillati dalle martellanti campagne educative del regime sognano uno spazio tutto loro in cui sperimentare la libertà e tenere il nezam, il sistema, fuori dalla camera da letto. Maschi e femmine non si possono toccare, l’adulterio può essere punito con la lapidazione e i contatti impropri con i membri dell’altro sesso innescano multe salate, notti in commissariato e un centinaio di frustate. Ciò nonostante, le abitudini stanno cambiando e, socialmente, il confine tra il lecito e l’illecito è sempre più evanescente. I giovani aspettano di avere “khane khali”, la casa vuota, e i giornali dei falchi denunciano la deriva nichilista delle nuove generazioni. I maschi iraniani dicono che nelle grandi città ci sono solo “vergini ricostruite” e assicurano che l’imenoplastica ha soppiantato la rinoplastica come intervento più gettonato tra le iraniane in età da marito. Con i bassiji che presidiano a ondate i luoghi di ritrovo, gli innamorati comunicano sui social network e la connessione che muore e riparte detta il ritmo delle parole. Si cercano nei caffè e si danno appuntamento nei taxi. In Iran oltre ai taxi privati ci sono i taxi pubblici o savaris che possono essere condivisi con tante quante più persone si incontrano lungo il cammino. L’autista stritola dentro l’auto – solitamente una malandata peykhan – tanti più corpi c’entrano e le normali regole sulla segregazione tra sessi volano fuori dalla finestra. A una coppia il savaris offre molte possibilità. Si può pagare un extra all’autista, domandargli di non accettare altri passeggeri e godersi la corsa da soli flirtando da un angolo all’altro della città o si può chiedere di far salire altra gente così da avere la scusa per stare seduti stretti stretti, far scivolare un braccio furtivo intorno alle spalle dell’amata e respirare il suo respiro. La repressione aguzza la creatività e, cresciuti tra mille divieti, gli iraniani imparano da subito a piegare le regole. “Sai perché siamo uno dei gruppi etnici al vertice della piramide informatica? – racconta al Foglio un iraniano che lavora nella Silicon Valley – Perché fin da piccolissimi ci esercitiamo a violare i codici della censura”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano