La Cina mette Mao in bottiglia

Matteo Matzuzzi

Servire il popolo, wei renmin fuwu, disse Mao Tse Tung nel 1944 commemorando la morte di Zhang Side, eroe della rivoluzione (che nel ’44 non era comunque ancora compiuta). Uno slogan così forte e immediato da diventare in breve tempo il simbolo di una stagione, tanto da finire scolpito a lettere dorate all’ingresso della residenza pechinese del segretario generale del Partito comunista.

Leggi Cina, la settimana decisiva di Shibada di The Tank

    Servire il popolo, wei renmin fuwu, disse Mao Tse Tung nel 1944 commemorando la morte di Zhang Side, eroe della rivoluzione (che nel ’44 non era comunque ancora compiuta). Uno slogan così forte e immediato da diventare in breve tempo il simbolo di una stagione, tanto da finire scolpito a lettere dorate all’ingresso della residenza pechinese del segretario generale del Partito comunista. Oggi, finita la rivoluzione e accettata la linea di Deng Xiaoping con le sue aperture al mercato e all’arricchimento diseguale (è lecito che qualcuno diventi più ricco prima di altri, diceva), servire il popolo è diventato il nome di un sito di e-commerce (paipai.com) che vende beni di consumo di ogni genere, anche articoli da sexy shop.
    E’ il segno dei tempi, gli slogan della grande tradizione – colta e contadina – e della propaganda politica vengono presi in prestito dalle agenzie pubblicitarie della Madison Avenue cinese, che adatta le massime del Timoniere ai brand più in voga, come raccontano Stefania Stafutti e Gianmaria Ajani nel saggio “Colpirne uno per educarne cento”, pubblicato da Einaudi nel 2008. Capita così che a Xujiahui, uno dei quartieri di Shanghai, siano comparsi grandi manifesti in cui, sotto la massima “La comunità è casa mia, la sua costruzione è compito di tutti”, sia stampato in nero su campo bianco il marchio della birra Budweiser. Anche il celebre richiamo alle “cinque cure” (civiltà, educazione, igiene, metodicità, etica) e alle “quattro bellezze” (animo, eloquio, comportamento, mondo circostante) lanciato dal Partito nel 1981, ha perso ogni riferimento ideologico: se allora erano parole d’ordine per rafforzare “la costruzione di una civiltà spirituale socialista”, oggi – sulla spinta di un’enfasi igienista che dura almeno dal 2003, anno in cui si pensava che la Sars fosse la nuova e moderna Morte nera – la stampa locale parla di “cure” e “bellezze” per chiedere che sia avviata una “rivoluzione dei cessi”, cesuo geming.

    Espressione forse indelicata, ma che è stata raccolta anche dalle rigide autorità del Partito, come il governo dell’Hubei, che nel 2007 ha promesso “cessi a cinque stelle” per tutti. Non meno carico di nuovi e più moderni significati è uno degli slogan prediletti dalle femministe occidentali degli anni Sessanta, quel “le donne sono l’altra metà del cielo” (funü neng ding banbian tian) attributo a Mao ma che forse Mao non ha mai pronunciato. Il Timoniere era sì favorevole all’uguaglianza tra i sessi (inserita nella prima Costituzione del 1954), ma pensava soprattutto ai lavori manuali, facendo passare l’emancipazione femminile attraverso una mascolinizzazione del ruolo e dell’aspetto fisico, come scrivono Stafutti e Ajani. Un esempio è dato da una delle poesie di Mao Tse Tung, in cui scriveva che “le donne della Cina nutrono strane ambizioni, non amano vestirsi di rosso, amano vestirsi da soldato”. Qualche decennio dopo, la massima campeggia nella home page di un sito di incontri cinese: Comunità di fidanzate dell’altra metà del cielo, recita la pagina principale.
    Che il tempo passi lo dimostra anche il grido di battaglia maoista secondo cui “ribellarsi è giusto”. Era il 1966, la Rivoluzione culturale  – uno dei momenti più drammatici della storia moderna cinese – era agli inizi: Mao cerca di epurare i vecchi veterani e gli oppositori interni, vuole “fare fuoco sul quartiere generale”, trasformando la Cina in una gigantesca comune del popolo. La ribellione è quindi legittimata, giustificata, incoraggiata. Giovani con libretto rosso in mano pronti a combattere per salvare il paese e l’utopia da coloro che hanno smarrito la rotta tracciata dal Grande Capo. Nel Terzo millennio, il concetto rivoluzionario si è affievolito, nessuno a Pechino pensa più alla Comune del popolo – neanche i maoisti nostalgici à la Bo Xilai, che pure chiedeva più spazio in tv per i canti tradizionali cari al Timoniere a scapito di qualche spot pubblicitario un po’ troppo occidentale e sognava città più rosse di luci e bandiere – ma lo slogan viene ripreso quando c’è un’altra battaglia da ingaggiare, questa volta contro il monopolio informatico dell’americano Bill Gates. Per sponsorizzare Linux2000, un video pubblicato sulla versione cinese di YouTube mostra un gruppo di soldati che anziché fucili imbracciano computer e tastiere: “La rivoluzione non è un crimine, ribellarsi è giusto, basta con il monopolio, il vero programma (a prezzi imbattibili) sta nelle nostre mani”, scandiscono in coro.

    La Cina di oggi si è lasciata alle spalle balzi e rivoluzioni, è un mondo in cui tutto diventa pop e può essere brandizzato, dove è possibile ironizzare pubblicamente sugli slogan che nel passato hanno ispirato intere generazioni. Impensabile, nel 2012, prendere sul serio la massima “Allevare meno figli e più maiali” che negli anni del maoismo istruiva i contadini delle campagne circa la necessità di coniugare le esigenze di controllo demografico con quelle della crescita economica, benché sia ancora valido l’ordine di mettere al mondo un unico figlio (zhi sheng yi ge hao) rispettando così la pianificazione familiare. I successori di Mao su questo punto sono stati più rigidi del Timoniere, se è vero che quest’ultimo si era mostrato disponibile a cercare una mediazione: è preferibile sposarsi a venticinque anni, non mettere subito al mondo figli e comunque mai più di due “debitamente distanziati”, suggeriva un rapporto governativo nel 1972.
    Sono gli effetti della globalizzazione, dell’apertura al mercato, della voglia di diventare finalmente “grande”. La Cina degli ultimi vent’anni è il paese che ha sostituito alle grigie divise maoiste abiti occidentali di alta sartoria, che al posto dell’aratro nei poster ufficiali che campeggiano nelle città ha messo i satelliti lanciati in orbita nello spazio.
    Mao rimane un’icona, il padre della patria che ha dato dignità al paese traghettandolo nella modernità – e i nuovi mandarini di palazzo in giacca e cravatta non perdono occasione per ricordarlo. Ma di Mao e delle sue epiche nuotate nello Yangtze si può fare a meno, il suo ritratto gigantesco in piazza Tiananmen è ormai più un oggetto da museo per turisti curiosi che l’effigie del modello comunista cinese trionfante, un pezzo pregiato da esibire come il Louvre fa con la “Gioconda” di Leonardo.
    Per settimane, addirittura, si mormorava che il Partito avrebbe eliminato ogni riferimento al Timoniere negli atti ufficiali del diciottesimo Congresso che si è aperto a Pechino giovedì scorso e che proseguirà fino a mercoledì 14 novembre. Ma era chiedere troppo a una nomenclatura che invece rimane ancorata a una ritualità del passato, alle grandi adunate periodiche con bandiere, gonfaloni e inni, a una continuità conservatrice che è l’opposto di una società dinamica che sempre più naviga in Rete, viaggia, si informa, diventa massa di opinione critica. Le nuove generazioni studiano il modo di aggirare i filtri imposti sul Web dal dipartimento per la Propaganda, il Minculpop locale, mentre a Pechino il Partito avvolge tutto nel mistero e nella segretezza. La trasparenza non esiste, le decisioni vengono prese in riunioni riservate e inaccessibili, la stampa e le tv si limitano a fornire al popolo la versione ufficiale dello stato, edulcorata quanto basta per non turbare il cittadino o il contadino della campagna, dando così l’idea che tutto è armonico. Il presidente uscente Hu Jintao, nel suo discorso durato un’ora e quaranta minuti – ed era la versione ridotta – ha citato tre volte Mao, mentre le telecamere della tv di stato indugiavano sul volto impassibile e lievemente sofferente del grande vecchio Jiang Zemin, che a ottantasei anni continua a estendere la sua influenza sulle mosse della politica di Pechino.

    La rigidità dell’establishment di palazzo è il contraltare di una società in movimento, sempre meno legata a un sistema percepito come asfissiante. I giovani creano blog e stringono amicizie sui social network, sorridono alla rielezione di Barack Obama sognando notti elettorali come quelle in America e guardano le partite di Champions League sui canali satellitari. E mentre fanno questo, a Pechino va in scena l’atto più importante e solenne della politica cinese, con le televisioni che trasmettevano le immagini di Li Peng (premier ai tempi dei fatti di piazza Tiananmen), del suo successore Zhu Rongji e di Deng Pufang, il figlio di Deng Xiaoping. Erano tutti lì, circondati da fiori beneauguranti, falci e martelli, seduti sulle solite poltrone di velluto rosso a promettere la felicità al popolo, corollario della “società armoniosa” (hexie shehui) di cui parla da dieci anni Hu Jintao, garantendo che entro il 2020 il sogno sarà diventato realtà.
    Non è il primo leader comunista a tracciare una rotta verso una meta, prima di lui l’avevano fatto già Stalin e Kruscev in Unione sovietica. Ma in Cina tutto, come spesso accade, è diverso. La società armoniosa di cui parla Hu è il lieto fine, il raggiungimento del definitivo equilibrio economico e sociale, l’eliminazione delle contraddizioni e dei difetti. E’ la promessa di una Cina senza classi sociali in cui la moralità e il profondo senso di giustizia saranno in grado di moderare le diseguaglianze e rimuovere le disarmonie.
    L’armonia va di pari passo con la stabilità: “In Cina l’esigenza principale è la stabilità. Senza un ambiente stabile non possiamo ottenere niente, anzi potremmo persino perdere ciò che abbiamo guadagnato”, diceva nel febbraio del 1989 Deng Xiaoping. Dopo di lui, i leader che si sono succeduti alla guida del paese non hanno fatto altro che riproporre il modello di Deng, aggiornandolo e adattandolo dove e come necessario. Jiang Zemin, nel 1997, semplificò la missione del suo mandato politico affermando che “senza stabilità niente può essere ottenuto”. Frase che è diventata giustificazione e copertura a fenomeni di censura informativa e di repressione del malcontento nelle periferie. Anche Confucio  attribuiva alla stabilità dello stato il carattere di bene supremo. Ma la sua filosofia (secondo la dottrina del Partito) era elitaria, distante dalle grandi masse popolari, classista. Il paese vive in pace nella stabilità e nell’armonia se ogni individuo della società si mantiene al proprio posto, se tutti rispettano il ruolo che è stato loro assegnato. Concetti intollerabili per il maoismo, che non a caso ha definito Confucio – con un millennio di ritardo – “traditore della causa rivoluzionaria”.
     Nei primi anni Settanta, in polemica con la selezione nella formazione universitaria che ai maoisti più puri sembrava preludere al ritorno del mandarinato aristocratico e borghese, fu coniato lo slogan “Criticare Confucio, criticare Lin Biao”, (Pi Lin pi Kong). Entrambi traditori della causa, entrambi meritevoli di critica e di condanna. Il primo perché teorico di una società elitaria, il secondo perché cospiratore e presunto attentatore alla vita di Mao. La felicità promessa dal Partito, però, non è quella di cui parlava Confucio – “la nostra felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta”– perché cadere non fa parte del lessico di regime. La Cina va avanti, progredisce, non si ferma e non ha battute d’arresto.

    Il popolo, forse, ha idee un po’ diverse, pensa che il raggiungimento della felicità sarà possibile quando anche le più remote province dell’Impero di mezzo non dovranno fare i conti con le carestie e la perenne emarginazione rispetto al centro nevralgico del potere. I ragazzi, i netizens che passano il tempo su Internet, sperano invece che un giorno felicità possa fare rima con libertà. Non vogliono che il sistema crolli, che il caos prenda il sopravvento. Credono nel Partito come occasione per farsi un nome ed entrare nella burocrazia statale. Ma allo stesso tempo si augurano un rinnovamento, auspicano che vengano messi da parte riti ingessati del passato, sperano che dopo la modernità conquistata nel 1949 la Cina compia un ulteriore balzo in avanti, aprendosi ancora di più al mondo. Il loro concetto di armonia è più vicino a quello teorizzato da Confucio, il filosofo che dopo decenni di messa al bando sta lentamente subendo un processo di riabilitazione da parte della nomenclatura comunista. La sua figura si studia nuovamente nelle università cinesi, film, sceneggiati e instant book dedicati ai “Dialoghi”  confuciani riscuotono grande successo di lettori, affollati convegni sul ruolo e la figura del grande saggio vengono organizzati con sempre maggiore frequenza nelle città del paese.
    E’ lo stesso governo a favorire il ritorno del grande saggio: dopo il fallimento della Rivoluzione culturale e davanti al pericolo di un’osmosi con l’occidente, l’àncora di salvezza individuata dal regime è il ritorno alle radici, ai valori propri della civiltà cinese che nel confucianesimo trovano origine. Senso del dovere, lavoro assiduo, studio, disciplina rispetto della famiglia e delle autorità: principi cardine della filosofia di Confucio diventate parole d’ordine della Cina comunista, che ha progressivamente fatto proprio il lessico degli insegnamenti del filosofo interpretandoli in chiave autoritaria e paternalistica.
    Il raggiungimento della felicità è stato l’obiettivo della quarta generazione di leader guidata da Hu Jintao e Wen Jiabao e lo sarà anche per la prossima, quella di Xi Jinping e Li Keqiang. La strada per raggiungere la meta prefissata dieci anni fa, però, è lunga e tortuosa: un sondaggio popolare del marzo 2011 suggeriva che solo il 6 per cento dei cinesi si ritiene felice (a fronte del 49 per cento di infelici). Un segnale preoccupante per la leadership al potere, il chiaro sintomo che l’ideologia non è più forte come un tempo, che le parole d’ordine del socialismo con caratteristiche cinesi fanno sempre meno presa sul popolo, anche perché nella gara tra funzionari e dirigenti locali a mettersi in mostra nelle megalopoli della periferia, ognuno negli anni ha dato una propria e personale interpretazione del concetto di felicità: c’è chi la intende come ritorno ai tempi gloriosi della Lunga marcia, chi sogna una riedizione aggiornata della Rivoluzione culturale senza le derive degli anni Sessanta e chi, invece, anche se sparuta minoranza, guarda ai modelli occidentali. Quelli che per Hu Jintao non contamineranno mai la purezza dell’Impero di mezzo.

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    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.