Il buono e il cattivo

La rovesciata di Quagliarella e il pugno di De Rossi

Sandro Bocchio

Sotto sotto ci sperava, Fabio Quagliarella. Sperava in una chiamata di Cesare Prandelli, nella possibilità di ritrovare una maglia azzurra. Lui che aveva segnato l'ultima rete del mesto congedo di Marcello Lippi contro la Slovacchia al Mondiale 2010. Lui che, comunque, era stato preso in considerazione nel nuovo corso dopo il disastro sudafricano. Un pensierino subito spazzato via dalla lista dei convocati, un pensierino che Daniele De Rossi neppure aveva fatto.

    Sotto sotto ci sperava, Fabio Quagliarella. Sperava in una chiamata di Cesare Prandelli, nella possibilità di ritrovare una maglia azzurra. Lui che aveva segnato l'ultima rete del mesto congedo di Marcello Lippi contro la Slovacchia al Mondiale 2010. Lui che, comunque, era stato preso in considerazione nel nuovo corso dopo il disastro sudafricano. Perché Quagliarella era (ed è) sempre stato considerato un attaccante moderno: duttile ma capace anche di segnare. Gol spesso significativi e, soprattutto, mai banali: tecnicamente complicati, di astuzia come di potenza. Pallonetti da distanze siderali oppure colpi secchi, pronti a lasciare il segno. A fare da contrappunto a una carriera da manovale del pallone, in pellegrinaggio per tutta Italia partendo dallo storico vivaio del Torino. Fino a trovare a Udine la propria dimensione ideale, sotto l'ala protettiva di Totò Di Natale. Fino al sogno di ogni campano che si rispetti, la maglia del Napoli. Ma fino anche quando non arriva la chiamata sognata da ogni italiano che si rispetti, quella della Juventus. Un passaggio lacrime e sangue, come solo possono essere i divorzi dopo un matrimonio d'amore e non di interessi. Con una rabbia da parte dei tifosi azzurri a tramutarsi in insulti alla persona e in maledizioni all'atleta. E, se vogliamo essere superstiziosi, la rottura del crociato a gennaio di un anno fa ne è logica conseguenza. Come logica conseguenza sono le malignità che accompagnano il recupero di Quagliarella: non sarà più come prima, dicono; oppure, peggio ancora, ha paura di tornare. Dicerie che l'attaccante sfata, aiutando la Juventus a rivincere lo scudetto e riscoprendosi – oggi – possibile punto di riferimento fisso in un attacco che punti di riferimento fissi non ha. Perché nessuno segna con la sua frequenza e nessuno sa donare gesti di pura bellezza come la rovesciata di Pescara.

    Ma questo non è bastato per assicurargli un posto in un'Italia che proprio sul bianconero poggia le fondamenta. Un pensierino subito spazzato via dalla lista dei convocati, un pensierino che Daniele De Rossi neppure aveva fatto. Perché lui è reprobo nei confronti dell'azzurro, caduto per la seconda volta in nome del codice etico stilato da Prandelli, che impedisce la chiamata di chi male si comporta sul campo. La prima volta non era stato convocato per una gomitata in Champions al croato Srna, stavolta paga il cazzotto rifilato a Mauri nel derby, in quella che è sempre stata la "sua" partita. Ma, come capita sovente sul fronte giallorosso, un confronto anche vissuto con una trance agonistica che sfiora l'isteria. Non si può definire in altro modo il gesto di De Rossi, un gesto che racchiude molte chiavi di lettura per quella che avrebbe dovuto essere la stagione della consacrazione definitiva e si sta invece trasformando in quella dei punti interrogativi, originati dal rapporto complicato con Zdenek Zeman e costellata di incidenti di percorso come la diversità di vedute sul ruolo, le accuse di scarso impegno, fino alla clamorosa panchina (doppia: lui con Osvaldo) contro l'Atalanta. Punzecchiature giunte a far immaginare l'inimmaginabile: il divorzio da Roma e dalla Roma. Impensabile per uno intessuto di romanità come De Rossi, però ipotizzabile in presenza di un rapporto non fiduciario. E in quel pugno a Mauri c'è tutto questo. Ma, soprattutto, alligna lo sconforto per ciò che avrebbe dovuto essere e invece (al momento) non è.