Così Velayati costruisce la sua tela attorno al secondo Obama
L’inizio del secondo mandato di Barack Obama è segnato dal susseguirsi di rivelazioni – smentite dalla Casa Bianca – sui contatti segreti in corso da settimane tra Teheran e Washington. Al centro del network sotterraneo, da parte americana ci sarebbe Valerie Jarrett, afroamericana, nata e vissuta per cinque anni a Shiraz, in Iran nel 1956 (parla il farsi), la più ascoltata dal presidente, oggi impegnata a risolvere lo stallo della crisi, tra le sanzioni dell’Onu contro il regime di Teheran e i segnali da Israele sempre più netti della preparazione di uno strike aereo contro gli impianti nucleari iraniani.
Roma. L’inizio del secondo mandato di Barack Obama è segnato dal susseguirsi di rivelazioni – smentite dalla Casa Bianca – sui contatti segreti in corso da settimane tra Teheran e Washington. Al centro del network sotterraneo, da parte americana ci sarebbe Valerie Jarrett, afroamericana, nata e vissuta per cinque anni a Shiraz, in Iran nel 1956 (parla il farsi), la più ascoltata dal presidente, oggi impegnata a risolvere lo stallo della crisi, tra le sanzioni dell’Onu contro il regime di Teheran e i segnali da Israele sempre più netti della preparazione di uno strike aereo contro gli impianti nucleari iraniani.
Obama è ora obbligato a uscire dalle fumoserie sul dossier iraniano imposte anche dalla campagna elettorale, ed è naturale che riattivi i canali sotterranei che da sempre, dopo il 1978, hanno permesso contatti discreti – talvolta scabrosi – tra Washington e Teheran. Non si sa quale sia il “piano B” di Obama nel caso in cui le sanzioni dell’Onu falliscano, ma è molto chiaro invece qual è lo spirito con cui questi contatti sottotraccia sono gestiti da parte iraniana. Secondo le indiscrezioni di fonte israeliana e americana, il contatto “coperto” degli Stati Uniti a Teheran sarebbe Mostafa Dolatyar, un diplomatico che formalmente fa capo a Saeed Jalili, segretario del Consiglio nazionale di sicurezza, responsabile della gestione internazionale del dossier nucleare. In realtà però, anche questa trattativa è sotto il ferreo controllo dell’uomo su cui la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ha riposto la sua piena fiducia, dal 1981 a oggi: Ali Akbar Velayati. Oggi privo di cariche governative ma titolare della prestigiosa carica di consigliere dello stesso Khamenei, Velayati è un Mazarino in veste persiana.
Laureato in pediatria nel 1974 alla John Hopkins University Velayati unisce a una ferrea fedeltà ai più rigidi principi della rivoluzione khomeinista una straordinaria duttilità di manovra, un eloquio affabulante per le orecchie dei diplomatici e dei leader occidentali, e un cinismo senza confini. Il suo capolavoro risale al 1988, alla condanna a morte da parte dell’ayatollah Khomeini dello scrittore Salman Rushdie. Scattate nel momento di maggiore difficoltà per un Iran che aveva appena concluso in modo disastroso la guerra con l’Iraq (costi economici per 5.000 miliardi di dollari), le sanzioni economiche decise dall’Unione europea e dai paesi occidentali rischiavano di avere effetti disastrosi sulla ricostruzione del paese. Velayati, ministro degli Esteri dal 1981 al 1997, escogitò una formula raffinata e sconcertante e nel giro di pochi giorni rilasciò queste due dichiarazioni: “Il governo iraniano non darà a nessuno il mandato di uccidere Rushdie, dovete distinguere tra le attività del governo iraniano e le Fondazioni private come la 15 Khordad”. La comunità internazionale accolse con sollievo l’apparente dissociazione del governo iraniano dal merito della fatwa e prontamente tolse le sanzioni, riprendendo ad acquistare petrolio. Una volta ottenuto il risultato, Velayati ribadì la legittimità islamica della condanna a morte: “La fatwa dell’ayatollah Khomeini contro Rushdie sarà sempre valida: se qualcuno attacca i nostri valori religiosi, noi reagiamo”.
Opportunismo realista
Nessuno a Teheran ha mai avuto dubbi che l’uomo fosse in grado di gestire in modo eccellente e con stile le situazioni più complicate. Era stato Velayati il regista occulto della trattativa che aveva permesso all’Iran di acquistare tra il 1984 e il 1985 armamenti americani per 64 miliardi di dollari, indispensabili per la guerra con l’Iraq, pagando in nero al colonnello americano Oliver North somme che furono poi girate ai Contras del Nicaragua, aggirando il divieto del Congresso americano di effettuare finanziamenti alla guerriglia antisandinista. L’Iran era impegnato in una guerra sanguinaria (500 mila morti) contro l’Iraq di Saddam Hussein, ma era vincolato all’utilizzo dei sistemi d’arma americani ereditati dalle Forze armate dello scià, non integrabili con sistemi d’arma diversi. La prima fase delle trattative con l’Amministrazione Reagan, impostata da Velayati, previde una “prova di buona volontà” da parte americana a costo zero. Come richiesto dagli iraniani, furono così consegnati i software che permettevano loro di attingere ai forniti magazzini di pezzi di ricambio (soprattutto per gli strategici F104) ammassati in immensi depositi sotterranei abbandonati in fretta e furia dai “consiglieri” americani nei frenetici giorni che seguirono la vittoria della rivoluzione khomeinista nel febbraio 1979. Dopo questa “prova di buone intenzioni”, Washington vendette a prezzo di mercato agli iraniani, tramite complesse triangolazioni, centinaia di missili antiaereo Hawk e migliaia di missili anticarro Tow – il ricavato andò a finanziare gli antisandinisti.
L’operazione condotta da Velayati andò in porto anche grazie ai suoi contatti – discretissimi – con i vertici di Israele. Shimon Peres, primo ministro, e Yitzhak Rabin, ministro della Difesa, fecero pressioni sull’Amministrazione americana a favore di consistenti forniture militari all’Iran. La ratio della posizione israeliana (oggi sconcertante) era semplice quanto incontrovertibile: l’Iraq di Saddam costituiva allora la più grave e seria minaccia militare contro Israele. Era interesse strategico di Gerusalemme che l’Iran consumasse al massimo sul campo di battaglia le Forze armate irachene.
Il re della dissimulazione
Velayati replicò la sua inventiva e la sua capacità di creare schemi eterodossi quando, nel 1991, trattò con Saddam Hussein il ricovero della aviazione irachena negli aeroporti iraniani. Fu una clamorosa beffa nei confronti del generale Norman Schwarzkopf, che prevedeva che Saddam Hussein, vista l’impossibilità di reggere ai bombardamenti di Desert Storm, avrebbe tentato di porre in salvo la sua flotta aerea: Schwarzkopf era certo che l’esfiltrazione sarebbe avvenuta verso la Giordania del re Hussein, alleato dell’Iraq, e stese un muroaereo impenetrabile tra Iraq e Giordania. Dopo rapidi contatti con i dirigenti iraniani, in primis con Velayati, Saddam Hussein potè portare a termine lo stesso la beffa: a iniziare dal 15 gennaio 1991, nove giorni dopo l’inizio della prima guerra del Golfo, i primi aerei iracheni iniziarono a riparare indisturbati e ben accolti negli aeroporti iraniani e nell’arco di due settimane 115 aerei militari (Mig e Mirages) e 30 aerei civili trovarono sicuro e sconcertante riparo negli hangar dell’Iran.
Che questa operazione portasse la firma personale di Velayati fu chiaro un anno dopo quando questi dichiarò pubblicamente: “L’Iran non ha alcuna intenzione di riconsegnare all’Iraq la flotta aerea militare irachena, almeno per il momento”. Velayati aveva messo nel sacco Saddam che solo nella prospettiva di una certa restituzione futura poteva avere deciso quella mossa inusitata di fiducia nell’ex acerrimo nemico. Negli anni successivi, tutti i dossier più delicati della politica estera iraniana videro sempre Velayati tessere la sua tela. Le autorità giudiziarie argentine l’hanno accusato di essere il mandante, assieme ad Ali Rafsanjani, dell’attentato al centro culturale ebraico di Buenos Aires che fece 85 vittime e 300 feriti ma l’Interpol, che ha emesso mandato di cattura nei confronti di Rafsanjani e altri, non ha dato seguito a quello contro Velayati. Le accuse erano basate su inconfutabili prove di utilizzo dell’ambasciata iraniana a Buenos Aires, e quindi del suo ministero, a supporto operativo degli attentatori, ma la decisione aveva una evidente ratio politica. In occidente si riteneva – e si ritiene ancora – che il raccordo con un interlocutore di così alta levatura politica e così legato all’ayatollah
Khamenei valga qualche omissione sul terreno del diritto.
Velayati ha così svolto il suo compito di ministro degli Esteri sino all’inizio della presidenza dell’ayatollah Khatami nel 1997, compiendo molte missioni nei paesi dai rapporti più tesi e conflittuali con l’Iran, a iniziare dalla storica avversaria: l’Arabia Saudita. Dalla fine della sua esperienza ministeriale a oggi, ininterrotto e determinante è stato il suo apporto alle scelte dell’ayatollah Khamenei, in perfetta sintonia sullo sviluppo del programma nucleare. Nel 2005 Velayati – unica sortita dalle sue manovre occulte – accarezzò l’idea di candidarsi alle elezioni presidenziali poi vinte da Mahmoud Ahmadinejad, ma desistette. L’ipotesi è aperta anche per il 2013, ma è legata a una forte sponsorizzazione dello stesso Khamenei, perché nell’arco di questi decenni Velayati tutto ha fatto, tranne costituirsi una base personale di consenso e di voti. Se così fosse, comunque, la presidenza Velayati non sarebbe certo di svolta. La differenza con Ahmadinejad sta nella forma, nello stile, nella raffinatezza di sviluppo della strategia, non nella sua sostanza. Velayati sostituisce al linguaggio populista e aggressivo di Ahmadinejad un’affabulazione raffinata, perfettamente modulata sulle pigre orecchie delle diplomazie occidentali.
Con Velayati nella cabina di regia l’Iran ha sempre disatteso tutti gli accordi proposti dall’Onu per una soluzione negoziata che garantisca a Teheran il nucleare civile e al mondo che cessino le violazioni dei protocolli dell’Aiea, con un palese arricchimento dell’uranio ben oltre la soglia del 20 per cento (necessaria alle centrali) e ormai in vista di quel 90 per cento utile soltanto alla costruzione della bomba atomica. La speranza è che Barack Obama, che stia trattando o no “al coperto” tramite la Jarrett con Velayati, si renda conto che il dossier nucleare è gestito, nel nome di Khamenei, da un rivoluzionario khomeinista a tutto tondo, eccellente allievo del miglior Kissinger, in grado di portare a vette eccelse l’arte della dissimulazione, taqiyya, in arabo.
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