Tarcisio Bertone, lo strano caso del salesiano con poco senso pratico
Non saprai mai cosa pensa un gesuita e dove trova i soldi un salesiano, così la vecchia sapienza proverbiale della chiesa. In Vaticano in molti però si domandano, e non solo i dispettosi corvi: Bertone il salesiano ci è o ci fa? Nel senso: è vittima innocente di ripetuti attacchi a fronte dei quali neppure il migliore dei segretari di stato saprebbe resistere, oppure, se non colpa, insomma ci mette del suo e, gaffe dopo gaffe, pasticcio dopo pasticcio rischia di mandare alla deriva quella barca di Pietro che pur da secoli resiste alle tempeste?
Roma. Non saprai mai cosa pensa un gesuita e dove trova i soldi un salesiano, così la vecchia sapienza proverbiale della chiesa. In Vaticano in molti però si domandano, e non solo i dispettosi corvi: Bertone il salesiano ci è o ci fa? Nel senso: è vittima innocente di ripetuti attacchi a fronte dei quali neppure il migliore dei segretari di stato saprebbe resistere, oppure, se non colpa, insomma ci mette del suo e, gaffe dopo gaffe, pasticcio dopo pasticcio rischia di mandare alla deriva quella barca di Pietro che pur da secoli resiste alle tempeste?
Rispondere non è facile. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato l’ennesimo caso riguardante il segretario di stato, scelto nel 2006 da Benedetto XVI perché di lui, e evidentemente di nessun altro, si fidava all’interno delle sacre mura. L’istituto religioso del quale Bertone fa parte, i salesiani, rischierebbero il fallimento (si parla di oltre centotrenta milioni di euro sequestrati) per una vicenda di eredità. Secondo un contenzioso, i salesiani dovrebbero sborsare svariati milioni di euro per un’eredità di diversi immobili lasciata nel 1990 all’ordine di don Bosco dal cosiddetto “marchese di Dio”, alias Alessandro Gerini.
E’ soltanto in un secondo momento però, che Bertone si è accorto – così egli sostiene in una lettera scritta al giudice Adele Rando – di essere stato raggirato: il valore del patrimonio è stato “gonfiato a dismisura”, dice, per “aumentare la somma destinata a Silvera” (Carlo Moisé Silvera, uno degli emissari degli eredi). Se ora tocca ai giudici decidere chi abbia ragione, un dato di fatto però resta: una certa inefficienza, e una mancanza di senso pratico insolita in un figlio di don Bosco, alberga nei piani alti del Palazzo apostolico.
Le tegole immobiliari sono diverse. Giusto in queste ore un altro attacco – o sintomo di malgoverno, dipende dai punti di vista – proveniente da Zagabria. In un’intervista rilasciata al quotidiano Vecernji List, il noto teologo e docente universitario croato Adalbert Rebic sostiene che nella vicenda relativa alla tenuta di Daila – una proprietà lasciata in eredità all’abbazia benedettina di Praglia, nazionalizzata e poi restituita alla diocesi di Parenzo-Pola dal governo croato e che la Santa Sede ha chiesto di far tornare ai monaci italiani che ne sarebbero i legittimi proprietari – a tramare nell’ombra sarebbe nientemeno che Bertone, mosso da appetiti di ordine economico e probabilmente sostenuto, anche questa volta si dice a sua insaputa, dall’“irredentismo italiano”. Rebic sostiene che i benedettini non hanno alcun diritto sulla tenuta di Daila, dalla quale vennero cacciati nel 1948. Per la perdita dell’immobile, aggiunge, hanno già intascato il risarcimento di 1,7 miliardi di lire nel quadro degli Accordi di Osimo. “Però in essi – così ancora Rebic – si è scatenata l’ingordigia biblica dalla quale Gesù ci raccomanda di stare lontano”. E ancora: “Il contenzioso può venir risolto solo se lo stato rispetterà le leggi, tenendo conto dei seguenti inconfutabili dati storici: Daila è territorio croato, gli Accordi di Osimo e i frati benedettini già indennizzati”. E invita la diocesi di Parenzo-Pola e i monaci italiani a guardarsi negli occhi e a rispettare la legge dell’amore di Gesù. Infine invita l’abate dei benedettini di Praglia a leggere ogni giorno la parabola del debitore spietato, “invece di occuparsi di transazioni in denaro e ricatti bancari”.
Sono passate poche ore da giovedì scorso. E’ stato non più di tre giorni fa che Bertone si è dovuto difendere dallo scrittore cattolico Antonio Socci che su Libero ha scritto che, nonostante il Papa abbia già perdonato il “corvo” Paolo Gabriele – Benedetto XVI, scrive Socci, avrebbe fatto pervenire già quest’estate al suo ex assistente di camera un messaggio di perdono –, questi è ancora agli arresti perché così avrebbe deciso autonomamente il segretario di stato. Ma almeno questa volta una lancia in favore di Bertone (i suoi difensori, dopo i primi anni di governo, sono andati un po’ scemando) è stata spezzata, contestualmente all’uscita di Socci, da dentro il Vaticano. Proprio giovedì scorso, infatti, durante l’inaugurazione dell’anno accademico dello Studio romano presso il palazzo della Cancelleria, è stato il decano della Rota romana, Pio Vito Pinto, a prendere la parola, presente Bertone. E a spiegare come un segretario di stato non diplomatico – nella lunga querelle che ha sparso contrasti e qualche veleno in Vaticano la critica maggiore fatta da molti a Bertone è proprio quella di non essere un diplomatico – come è il pastore salesiano oggi in carica, può benissimo incarnare il ruolo che il Papa gli ha dato. E ha ricordato che già tre grandi figure di segretari di stato nel Novecento non provenivano dal servizio diplomatico: Pietro Gasparri, Domenico Tardini e il francese Jean-Marie Villot. E prima di loro tre vi fu il barnabita Luigi Lambruschini, segretario di stato di Papa Gregorio XVI dal 1836. In tutti e quattro i casi la barca di Pietro “ha attraversato marosi turbolenti” ed è sopravvissuta. Un po’ come oggi, quando “accanto a un Papa così intrinsecamente vicino all’ideale contemplativo” dice Pinto “la Provvidenza ha posto un segretario di stato proveniente da un carisma (quello di don Bosco) votato all’azione apostolica”, un esempio di come “servizio diplomatico e carisma della vita consacrata producono un fecondo e grandissimo giovamento alla missione petrina”.
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