L'anti Zeman
Montella non è più Vincenzino. Il diminutivo è scomparso quando ha smesso di giocare per allenare. Vincenzo, basta. Per capirsi. Per capirci. Per dire senza parlare che qualcuno, con lui ha sbagliato. Firenze meglio di Roma: questa è l'Autosole delle opportunità e c'è chi non ha scelto lo svincolo giusto. Fa male, adesso, vero? Zeman che impallidisce di fronte a Montella è la sconfitta di chi aveva per le mani Vincenzo e non l'ha capito. Giovane, bravo, capace, lavoratore, comunicatore. Zero voglia di fare il santone.
Montella non è più Vincenzino. Il diminutivo è scomparso quando ha smesso di giocare per allenare. Vincenzo, basta. Per capirsi. Per capirci. Per dire senza parlare che qualcuno, con lui ha sbagliato. Firenze meglio di Roma: questa è l’Autosole delle opportunità e c’è chi non ha scelto lo svincolo giusto. Fa male, adesso, vero? Zeman che impallidisce di fronte a Montella è la sconfitta di chi aveva per le mani Vincenzo e non l’ha capito. Giovane, bravo, capace, lavoratore, comunicatore. Zero voglia di fare il santone. Con un mercato buono, ma nella norma, guarda in basso e saluta chi ha fatto investimenti milionari e s’è trovato con i guai di sempre: i gol subiti a grappoli, i giocatori malmostosi, il meccanismo inceppato. Montella era lì e avevano visto pure che era bravo. Ma no, non era abbastanza, vero? Ci voleva il ritorno della retorica del gradone. Tutti uguali (tranne Totti). Invece no: Montella è troppo avanti per chi guarda indietro. Lui è uno che ha preso il vecchio modo di allenare e l’ha stravolto: gruppo? Si, ok, per le partitelle, per le analisi tattiche, per ritrovarsi prima di scendere in campo. Il resto, cioè molto, è individuale: non uno per tutti, ma uno per uno per creare tutti. Che poi se uno ci pensa è logico: un centrale di difesa che domenica deve marcare Pazzini non ha senso che si alleni come il regista che deve massacrare Montolivo. E così la settimana dopo e poi quella dopo ancora. Montella è semplice, ma la sua semplicità è rivoluzionaria: non stava bene, finora, trasformare le squadre in un gruppo di singoli. Era il sintomo della disgregazione, la spia che indicava un fallimento: la Fiorentina di oggi ribalta tutto. Montella costruisce l’identità collettiva mescolando molte identità individuali. E’ il puzzle della tattica e della psicologia pallonara. Funziona, sì. La Fiorentina va, è lì dove non era da molto tempo; lì dove, forse, neanche i tifosi speravano sarebbe tornata. In città si diceva che erano finiti i tempi buoni, che il rapporto deteriorato tra la città e la società aveva trasformato la squadra in un ibrido senza senso. Dicevano: “Dopo Prandelli non sarà più la stessa cosa”.
Sembrava vero. Basta vedere gli ultimi due anni: s’era rotto qualcosa. Era come se non ci fosse più quell’aria frizzante che aveva accompagnato tutti i primi anni dell’esperienza dei Mister Tod’s nel mondo del pallone. Firenze era il laboratorio: la società faceva il suo, la squadra il suo, il pubblico il suo. Non c’era più la tensione degli anni 80-90, quando la città era calda, agitata e sempre pronta a esplodere contro avversari e amici. Della Valle aveva portato l’Europa in riva all’Arno, intesa come spirito oltre che come risultato sportivo. Un modello, s’è detto per diversi anni. Era ancora così per molti versi anche l’anno scorso, ma l’equilibrio era spezzato: la gente mormorava, discuteva l’allenatore, criticava la società, attaccava i giocatori. Lettere, contro lettere, interviste, cori: il club indignato per certe prese di posizione del tifo, il pubblico arrabbiato perché accusa la società di non avere più un progetto ambizioso. Nel 2002, quando la società passò agli imprenditori marchigiani, l’accordo era fatto: alla Fiorentina sarebbe stato dato il via libera alla costruzione di un quartiere di negozi, servizi, parco, museo e abitazioni legati al club. Un’Eurodisney viola che valeva una barca di euro. Il progetto è fallito tra i veti del consiglio comunale e la famiglia Della Valle c’è rimasta male. Allora le voci, allora le chiacchiere: s’è parlato di una possibile cessione del club alla Qatar Airways o alla Red Bull. Nel frattempo, Firenze ha cominciato a irritarsi per gli investimenti dei mister Tod’s sul Colosseo: perché spendere 25 milioni di perdite certe per ristrutturare l’Anfiteatro Flavio e non usare quei soldi per la città dell’Arno? Caos e polemiche. Qualcuno alzò un po’ troppo la voce, così il 10 giugno 2011 Andrea Della Valle scrisse ancora: “Se Firenze non ci vuole più, siamo pronti ad andare dal sindaco Renzi e a cercare acquirenti all’altezza”. Altro caos e la tregua: l’annuncio del patto con la città e l’inizio del nuovo corso, con la nomina nel Cda del vicesindaco e del presidente del consiglio comunale. Una toppa che non aveva chiuso il buco sportivo. Perché la Fiorentina era vuota: senza un progetto, senza un’idea, senza un’identità. Buoni giocatori messi male in campo, gestiti peggio. Mihajilovic e Delio Rossi sembravano due strateghi, invece sono stati due semplici allenatori sconfitti da se stessi, prima che dagli avversari.
Vincenzo ha fermato il piano inclinato del crollo. Rotola, rotola, rotola e a un certo punto stop. Quelli che dicevano di Prandelli, ora dicono di lui: “E’ il vero top player della Fiorentina”. Perché i Della Valle hanno cercato, cercato, cercato uno che fosse il punto massimo del calciomercato estivo, uno che facesse dire ancora una volta: “La società ha fatto il massimo”. Avevano preso Dimitar Berbatov, si sa. Poi la Juve, poi il Fulham, poi il giocatore: insomma, niente. Con la delusione e la rabbia, con l’orgoglio sfregiato di essere stati vittima di un gioco di potere tra giocatore, procuratore e altri club che qualche anno fa non ci sarebbe stato.
Il 31 agosto la Fiorentina pareva un giocattolo bello, ma senza batteria: manca qualcosa, diceva la critica. E’ vero, manca. Manca ancora: uno da 20 gol, uno di quelli che risolvono i problemi, uno che con Jovetic sarebbe stato il goleador. Era arrivato Luca Toni e a Firenze s’era storto più di qualche muso: vecchio, bollito, finito, involuto. Era stata tirata fuori la storia dei cavalli di ritorno che non funzionano mai. Tre mesi dopo, il bomber manca, però Toni ha segnato tre gol, Jovetic ne ha fatti sei: non avanza, ma basta. Montella si diverte, la squadra pure, la società anche, Firenze di più. Si sente giovane, brillante, nuova. Si sente forte. Montella è il Matteo Renzi del pallone. Piace a molti: esempio di come si cresce, si lavora, si fa. Non piace a chi si sente minacciato, agli altri allenatori che lo ammirano, lo lodano, ma sotto sotto sperano che si sgonfi. Perché ha 38 anni (come il sindaco e candidato alle primarie Pd), perché ha idee, perché sa esporle, perché è consapevole che questo è il suo momento. Montella ispira e quindi spaventa: che succederà, pensano i sessantenni che hanno dominato le panchine finora, se i club imitano la Fiorentina? Non potendolo blindare con regole e sotterfugi, sui campi di calcio provano a smontare il suo giocattolo. Ogni partita è “la prova della verità”, il che nasconde neanche troppo segreta voglia di un errore per dire che va bene l’entusiasmo, va bene il divertimento, va bene l’innovazione tattica, ma vuoi mettere l’esperienza? Il problema dei babbani del pallone è che Montella li frega: ha stracciato (pareggiando) la Juventus, ha giocato meglio (perdendo) contro il Napoli, ha stravinto con la Lazio, ha messo i piedi in testa al Milan. Solo l’Inter l’ha fregata e guarda caso lì c’è un altro ragazzino in panchina.
Vincenzo ha vinto anche se perde. La vittoria è la breccia, l’idea passata che uno come lui, giovane, possa prendere una squadra che sembrava depressa e farla diventare la miglior cosa vista quest’anno sui campi italiani. Stramaccioni gli ha tolto il peso (non sentito, per dirla tutta), di essere il più piccolo d’età. L’anno scorso si parlava solo di questo. Lui: “Non si gioca con la carta d’identità”. In campo, in panchina. Ha giocatori giovani che gestisce alla perfezione. Prendi Adem Ljajic, il ragazzino preso a pugni l’anno scorso da Delio Rossi. Lui è la chiave. Più di Jovetic e più degli altri. Ljajic era bollato come l’ingestibile, il viziato, lo sbruffone, uno che si sente un campione senza esserlo, che gioca male e pretende pure di sentirsi importante. Quando Delio Rossi lo picchiò, l’Italia si mise dalla parte dell’allenatore: “Se le è meritate, in fondo”. Ecco, Ljajic di quest’anno è un’altra cosa: gioca, segna, ride, non offende. Ogni volta che gli fanno un’intervista, capita questa domanda. E capita sempre che poi si finisca a parlare della sua storia con Capello. Di quella bottiglietta lanciata addosso all’allenatore in un Napoli-Roma. “Chiarisco una volta per tutte. Io non ho mai tirato una bottiglietta in faccia a nessuno. L’ho tirata dalla parte opposta. E poi credo che un giocatore che reagisce verso il proprio allenatore, senza eccedere, possa essere un valore aggiunto per la squadra”. Ai tempi di Roma, da giocatore, qualcuno gli aveva appiccicato la fama di rompiscatole e di rompiTotti: si diceva di un litigio, di un’alleanza invisa al capitano, con Antonio Cassano. Voci, sempre voci. La rovina di Roma che in quel periodo arrivava attraverso i racconti anonimi dello spogliatoio: balle che mescolavano le esclusioni dalle formazioni con presunti litigi tra mogli per lo shopping. Ma dai. Ma su. Montella non ne parlò neanche una volta. Totti neppure. Ma se cercate negli archivi o nella memoria di quella Roma pre scudetto c’è tutto. Vincenzo sembra uno di quelli sbagliati, uno di quelli capaci di rovinare tutto. Ma può essere? Oggi la panchina restituisce la verità che scavalca la diceria. Montella c’è. E quindi c’era. Montella sa gestire anche le crisi, a modo suo. Non si urla, non si sbraita, non si cazziano i giocatori in pubblico. Così è, anche se non vi pare. Non c’è un modo solo di gestire i ribelli. Delio Rossi? “Quando ho visto quelle immagini ho capito quanto questo sport e questo lavoro possano esasperare”. Non c’è solo il bastone. Non c’è soltanto l’autorità. Non c’è solo “io sono l’allenatore e tu un giocatore”. Vincenzo non gliel’avrebbe dato quel pugno a Ljajic. Il ragazzino ha offeso l’allenatore? Lui se ne sarebbe fregato. Servono i gol, non l’educazione. Può piacere o no. Montella ha preso Adem l’ha accompagnato nella civiltà. Senza ceffoni, con la credibilità di essere uno che il pallone lo capisce, a prescindere dal fatto che sia stato un grande giocatore. Montella parlava con i piedi, ma non ha mai smesso di farlo con la testa. Lo senti ora, lo senti sempre.
Una voce serena, un personaggio nuovo. Vincenzo ha una risposta per tutto. Se gli chiedi di Obama, risponde. Se gli chiedi della Fiat risponde. Se gli chiedi degli avversari, risponde. Ha sconfitto il luogo comune dell’allenatore giovane che deve giustificare le sue scelte e basta. S’è costruito il futuro pensando che sarebbe stato ancora calcio, oppure no. Si vede. Si sente: “Sono gli esempi che contano. E per me l’esempio è mio padre, un uomo che parla poco come me ma a ottant’anni fa ancora il falegname. Il fatto che io abbia guadagnato molto bene non gli ha spostato la quotidianità di mezzo metro. Lui è il mio modello. Per questo ho iniziato a costruirmi il futuro prima di smettere col calcio giocato. E’ che a un certo punto mi sono messo a studiare. Non volevo perdere tempo. Un corso di management, uno di psicologia all’università”. Il caso Ljajic vale. Così come quello Pizarro, o quello Toni. Perché sarebbe elementare riuscire a gestire soltanto i ragazzini. Facile: sei stato forte, sei stato un campione, ai giovani puoi sempre ricordarlo. Agli altri no. Pizarro aveva bisogno di motivazioni, Toni anche. Vincenzo le ha trovate. E’ la capacità di dare un’identità alla squadra. La propria identità. Firenze è un nuovo laboratorio: mescola talenti sfioriti e da rigenerare, con promesse che devono ancora maturare. Funziona perché c’è uno che sa annaffiare il campo. L’acqua, il sole, la cura.
Montella fa il contrario di quello che faceva Fabio Capello con lui. Lui per l’allenatore della Roma campione d’Italia era invisibile, ora per lui tutti possono valere qualcosa. Quanto lo decide lui, senza mescolare i piani, senza confondere i ruoli. Chiamarsi per nome non significa che tutti siano allo stesso livello. Uno sceglie, gli altri sono scelti. E’ l’autorevolezza che non sconfina nell’autorità. E’ il pezzo mancante del puzzle: Montella lo costruisce ogni partita, semplificando il complicato. Il calcio è semplice: tre-quattro tocchi per arrivare in porta. Zeman non ha scoperto nulla, però qualcosa l’ha data: la velocità nel muovere il pallone, l’idea dello spazio come giocatore invisibile. Montella l’ha preso senza esasperare il resto: moderno perché non è estremista. All’inizio, coi Giovanissimi giocava con il tre centrocampisti e tre attaccanti, poi ha cambiato: quattro centrocampisti e due attaccanti; poi ha cambiato di nuovo: quattro centrocampisti, una mezza punta, due attaccanti; poi un’altra correzione: cinque centrocampisti e due attaccanti. Ora è disposto a cambiare sempre. Ogni partita? Possibile. “Non esiste un modulo esatto, se no lo utilizzerebbero tutti. Per un allenatore è importante infondere un’idea di gioco, a prescindere dai moduli, e a volte la scelta dipende dai giocatori che hai”. Ha sconfitto il populismo calcistico mettendo la palla a terra. Si gioca rapido, si gioca spostandosi ognuno come si deve. Ognuno per conto suo. Quindi tutti insieme: la rivoluzione che funziona è un dettaglio che si vede alla fine.
Il Foglio sportivo - in corpore sano