Lo scaldabagno Toni e quella papera di Abbiati

Sandro Bocchio

Uno scaldabagno. Questo il termine più riferibile con cui veniva descritto Luca Toni dopo l'esperienza tedesca nel Bayern. Un ritorno per nulla trionfale in Italia nel 2010, per tappe dimenticabili con Roma, Genoa e Juventus. Un attaccante considerato pensionato a tutto tondo, per età ultratrentennale, usura fisica e incapacità di fare nuovamente ciò che bene aveva fatto per una vita: i gol.

    Uno scaldabagno. Questo il termine più riferibile con cui veniva descritto Luca Toni dopo l'esperienza tedesca nel Bayern. Un ritorno per nulla trionfale in Italia nel 2010, per tappe dimenticabili con Roma, Genoa e Juventus. Un attaccante considerato pensionato a tutto tondo, per età ultratrentennale, usura fisica e incapacità di fare nuovamente ciò che bene aveva fatto per una vita: i gol. Da dimenticare nell'esilio dorato a Dubai, tra i tanti Paesi arabi sempre così generosi con gli ex, specie se campioni del mondo come Toni lo era stato nel 2006. Facile immaginare i risolini di chi se lo è ritrovato in Italia in data 31 agosto, ultimo giorno utile di mercato. L'ingaggio last minute della Fiorentina per tamponare il voltafaccia di Dimitar Berbatov, il bulgaro buono solo a promettersi a tanti fino a sfilare via il portafoglio al più generoso. Una beffa doppiamente atroce viste le manovre di disturbo della Juventus, nemica mai normale da quelle parti. Allora Toni. Anzi: Toni, chi? E via sottolineando la campagna rinforzi fatta con gente retrocessa (Gonzalo Rodriguez e Borja Valero con il Villarreal in Spagna) oppure riciclata per l'ennesima cessione (Alberto Aquilani). Senza tener però conto delle virtù tattiche e umane di Vincenzo Montella, uno che sa far giocar bene le sue squadre ma, soprattutto, sa motivare come pochi altri i suoi uomini. Così Luca Toni non è stata solo la patetica riproposizione del passato, a cominciare dal numero 30. E' stata la capacità di scavare nel profondo e riportare alla luce quel giocatore capace di realizzare 31 reti nel 2006, cifra che persino il divino Zlatan Ibrahimovic ha solamente avvicinato. Facendo leva sui sentimenti, ben radicati in un professionista che - pur con qualche sbuffo - a differenza di altri conclamati fenomeni era rimasto nel complicato post-Calciopoli per aiutare la Fiorentina a salvarsi. E gestendone al meglio le qualità, non più fisicamente dirompenti come nel passato ma comunque tali da fare la differenza in un torneo andato sempre più impoverendosi: quattro reti in dieci gare e il terzo posto viola nessuno li avrebbe mai immaginati.

    Come nessuno avrebbe immaginato che il Milan si sarebbe trovato tradito nell'unico ruolo dato per sicuro. Perché Christian Abbiati era la certezza acquisita nella stagione della grande rivoluzione. Via i vecchi leoni, restavano lui e Massimo Ambrosini del periodo ancelottiano, sia pure con un triennio sabbatico del portiere tra Juventus, Torino e Atletico Madrid per fare spazio al fragile talento di Dida. Un esilio accettato secondo abitudine, in silenzio. Come in silenzio Abbiati aveva accettato i bisbigli di chi non lo considerava rossonero al cento per cento per una presunta passione interista. Sempre consapevole di non avere la certezza del posto fisso, nonostante uno scudetto conquistato appena ventenne. Fino all'inizio dell'era di Allegri, che Abbiati festeggia con il rinnovo del contratto e con il terzo titolo personale (ci sarebbe anche quello del 2006 con la Juventus, però...). A 35 anni si potrebbe guardare al futuro da padre nobile, in attesa dell'addio al calcio. Ma il pallone disegna traiettorie imprevedibili, come quella di Gokhan Inler che increspa le labbra di Adriano Galliani per fargli sfuggire: . Un incidente diplomatico cui lo stesso ad milanista ha cercato di porre rimedio in tutta fretta riparandosi dietro il paravento del tifo e delle regole del gioco. Basterà?