Grande fratello

Ho creato io il redditometro, ora però il Fisco non ne abusi

Francesco Forte

Di fronte al nuovo redditometro costituito da (oltre) 100 voci di spesa che spaziano in tutti i campi della vita e riguardano non solo i consumi e le altre spese correnti, ma anche le spese in conto capitale, il mio atteggiamento è di sgomento, come di un apprendista stregone per le conseguenze inattese della sua invenzione. Io ho creato il redditometro nella primavera del 1983, insieme a tre miei collaboratori.

    Di fronte al nuovo redditometro costituito da (oltre) 100 voci di spesa che spaziano in tutti i campi della vita e riguardano non solo i consumi e le altre spese correnti, ma anche le spese in conto capitale, il mio atteggiamento è di sgomento, come di un apprendista stregone per le conseguenze inattese della sua invenzione. Io ho creato il redditometro nella primavera del 1983, insieme a tre miei collaboratori: Giovanni Imperatrice, presidente di sezione del Consiglio di stato, Giovanni Somogy, ordinario di Politica economica nella facoltà di Scienze politiche della Sapienza, Nicola Scalzini, esperto di statistica economica e contabilità pubblica. Stavo per scadere da ministro delle Finanze. Avevo introdotto un’ampia serie di strumenti d’accertamento analitico che, sulla scia di Ezio Vanoni, consideravo come essenziali nel rapporto fra fisco e contribuente nello stato democratico, in cui il tributo è la contropartita dei servizi pubblici e i due soggetti sono su un piano di parità. Essi erano: l’obbligo generalizzato di trattenuta alla sorgente per tutti i redditi pagati da un datore di lavoro o da un’impresa o da un lavoratore autonomo ad altri per prestazioni di lavoro o servizi di ogni genere, il codice fiscale (che avrei voluto valesse anche come tessera sanitaria e della previdenza sociale, ma ciò fu allora bocciato dalle rispettive burocrazie) e, infine, il registratore di cassa. Tutto ciò in poco più di sei mesi. A questo avevo aggiunto nuovi controlli alle dogane e maggiori ispezioni dei registri contabili delle imprese, obbligando i super ispettori che stavano al ministero ad andarle a fare nelle varie sedi periferiche.

    Ci torturava il pensiero che fosse rimasto senza alcun parametro oggettivo l’accertamento induttivo previsto dalla legge istitutiva dell’Irpef, quando quello analitico non poteva operare perché mancavano le dichiarazioni dei redditi e dell’Iva o erano gravemente manchevoli, contraddittorie, eccetera. Così pensammo di stabilire dei parametri oggettivi per ridurre l’arbitrio dell’accertamento induttivo, non per soppiantare quello analitico. E decidemmo che si dovesse fare utilizzando i dati medesimi che si dovevano indicare, sulla base delle leggi esistenti, nelle dichiarazioni dei redditi circa gli indici di tenore di vita che riguardavano personale domestico, affitto di alloggi, automobili, cavalli, aeromobili, imbarcazioni da diporto. Le tabelle che avevamo costruito non riguardavano il costo di tali beni ma quello del loro mantenimento, compreso l’ammortamento, e ci si riferiva pertanto al possesso e non alla proprietà (che comunque poteva essere di un prestanome). Questi costi venivano moltiplicati per quattro o per cinque, o in casi estremi – come quello dei cavalli (che possono essere tenuti da amanti della natura o degli animali) – per tre. Quindi un terzo del reddito presunto sarebbe spettato al fisco, un terzo riguarderebbe il costo del cavallo, un terzo dovrebbe restare alla famiglia. Oppure un quinto alla spesa per l’abitazione, due per gli alimentari e le altre spese quotidiane, un quinto per le spese varie e uno per il fisco.

    Così il sistema è cambiato in peggio
    Però non si sommavano, come ora, queste spese perché non pretendevamo di ricostruire una parte del tenore di vita del contribuente: con questi dati utilizzavamo l’indice che dava il reddito presunto più alto. Lo applicai al direttore generale che era un po’ scettico, ma funzionò. Il redditometro valeva solo se l’accertamento analitico non era credibile. Poi il sistema è cambiato. Dapprima si sono sommati fra loro vari indici di reddito per spese non di base. Poi si sono aggiunte le spese di base desunte da documenti o presunzioni. Quindi si sono aggiunte le spese in conto capitale come indici di ricchezza. Uno strumento sempre meno oggettivo nella sua complicazione statistica, ma sempre al servizio dell’accertamento induttivo, quando l’analitico non è attendibile. Il grande passo lo si fa ora, con un redditometro – che ieri il direttore dell’Agenzia delle entrate, Attilio Befera, ha detto essere ormai “pronto” – che vuole misurare il reddito effettivo totale di ciascuno e che prevale sulla dichiarazione dei redditi anche se non vi si trovano incongruenze. Una sorta di “grande fratello”, per cui il contribuente e il fisco non sono più su un terreno di parità, ma il secondo prevale sul primo che diventa una specie di particella catastale. Orrore.