La crisi europea non è finita/4

La borghesia catalana al voto e il sogno di diventare la Svezia spagnola

Guido De Franceschi

La parola che i catalani sentono come più identificativa della propria cultura è “seny”, un concetto che con buona approssimazione si può tradurre con “assennatezza”. Eppure, in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento catalano in agenda per domenica, il seny non sembra essere il faro guida del dibattito in corso a Barcellona, così come nel resto del paese. La Spagna non pare per ora in grado di risalire le pareti scivolose dell’imbuto in cui si è infilata la sua economia e il tasso di disoccupazione ha ormai superato il 25 per cento.

    Milano. La parola che i catalani sentono come più identificativa della propria cultura è “seny”, un concetto che con buona approssimazione si può tradurre con “assennatezza”. Eppure, in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento catalano in agenda per domenica, il seny non sembra essere il faro guida del dibattito in corso a Barcellona, così come nel resto del paese. La Spagna non pare per ora in grado di risalire le pareti scivolose dell’imbuto in cui si è infilata la sua economia e il tasso di disoccupazione ha ormai superato il 25 per cento.
    In Catalogna, una delle regioni tradizionalmente più ricche, i dati non sono un granché migliori della media nazionale. Eppure, a pochi giorni dal voto anticipato per scegliere il governo locale, a Barcellona la parola chiave rimane soltanto una: “Indipendenza”. Il responsabile dell’accelerazione che ha trasformato le elezioni locali di domenica in un pre-referendum di autodeterminazione è l’attuale capo dell’esecutivo catalano Artur Mas. Il leader della coalizione democristian-liberale Convergència i Unió (CiU) già nel corso della prima parte dell’anno aveva affilato la lama retorica del nazionalismo. Poi è arrivato l’11 settembre, giorno della Diada, la festa nazionale catalana. Alla manifestazione, che normalmente vede scendere in piazza poche migliaia di persone, quest’anno ha partecipato un milione e mezzo di catalani, scandendo slogan indipendentisti. Corroborato da questa folla, Mas ha rotto gli argini propagandistici e ha iniziato a parlare con toni sempre più alti della sua volontà di tenere a breve un referendum sull’indipendenza catalana, strumento peraltro proibito dalla Costituzione spagnola.
    Dai sondaggi sembra improbabile che CiU possa ottenere una maggioranza assoluta, ma comunque la sfiorerà, confermando o rifilando al rialzo il proprio attuale numero dei seggi e potendo contare, per avere un’ampia maggioranza pro referendum in Parlamento, su due formazioni nazionaliste in predicato di aumentare i consensi: Esquerra Republicana de Catalunya (Erc) e Iniciativa por Catalunya-Verds (Icv). Coinvolti altrettanto ossessivamente dal tema “indipendenza sì - indipendenza no”, fanno sentire alta la propria voce “spagnolista” il Partito popolare e due formazioni ostilissime al nazionalismo: Ciutadans e Unión, Progreso y Democracia. Annaspano invece, proponendo una terza via federalista, i socialisti che sembrano destinati a una débâcle.

    Al di là del risultato elettorale, che in realtà ben poco potrà dire sull’effettiva percorribilità futura della strada secessionista imboccata da Mas, è interessante cercare di capire in che modo, nel volgere di pochi mesi, il quieto regionalismo di CiU possa essersi trasformato in un indipendentismo tutto sommato inedito che, se si dimostrasse longevo, porrebbe in serio pericolo la coesione territoriale della Spagna già indebolita dalle spinte centrifughe basche. Infatti, se non è una novità l’indipendentismo di sinistra espresso da Esquerra Republicana, minoritario e declinato perlopiù come affezione verso la memoria di Lluís Companys, capo del governo repubblicano catalano poi travolto dalla vittoria franchista nella Guerra civile, piuttosto inedita è la svolta aggressivamente nazionalista impressa da Mas a Convergència i Uniò. Coalizione di umori conservatori, CiU è sempre stata il punto di riferimento della borghesia catalana. Un blocco sociale spesso mitizzato, che ama autoritrarsi come solido, rivolto verso nord e verso l’Europa, versato nell’industria e nel commercio. Fedele al già citato “seny”, sobria, prudente, cattolica, laboriosa, amante della tradizione, lettrice di un quotidiano posato come La Vanguardia, ammiratrice di geni locali come Antoni Gaudí, Salvador Dalí e Joan Miró che furono eccentrici e rivoluzionari in campo artistico, ma non lo furono per nulla quanto ad afflati ideologici, la borghesia catalana delle grandi città, così come la popolazione conservatrice dei centri minori, ha sempre votato per CiU, aspettandosi dal partito catalano par excellence quella capacità di amministrare con spirito regionalista gli intrecci tra politica locale e potentati economici, garantendo lo status quo e difendendo con juicio l’eccezione catalana.

    Un’identità forte e radicata, seppure un po’ diluita da un massiccio afflusso di immigrati dal resto della Spagna e dall’estero. Un’identità al centro della quale c’è una lingua parlata da più di dieci milioni di persone, che conta su una letteratura antichissima e prestigiosa e che ha ricevuto negli ultimi anni combustibile grazie a immense sovvenzioni pubbliche e a leggi che il resto della Spagna vede come liberticide, come quella che prevede una multa per i negozi che non abbiano l’insegna in catalano e quella che nei concorsi pubblici azzera le possibilità di ottenere un posto per chi non parli un catalano fluente. Un’identità che ama esibirsi sulle tribune del Camp Nou quando gioca il Barcellona, che per tutti i catalani è “més que un club”, più di una squadra di club, cioè una specie di nazionale. Un’identità che, nelle inchieste demoscopiche, fa sì che meno del dieci per cento dei catalani di qualsiasi origine si sentano “soltanto spagnoli” o “più spagnoli che catalani”.
    Eppure il sentimento indipendentista non è mai stato, né probabilmente è ora, maggioritario e prevale tradizionalmente il sentimento di una doppia appartenenza catalan-spagnola. Ora però, nel bel mezzo della crisi economica e con la possibilità di far sponda sul caso scozzese, sembrano guadagnare appeal i vagheggiamenti di Mas, che evocano la possibilità di trasformare una Catalogna indipendente in una specie di Svezia iberica o, se (come dà a intendere Bruxelles) un nuovo stato non sarebbe accolto ipso facto nell’Unione europea, in una Svizzera mediterranea, autonoma e florida. Gli “spagnolisti” invece tratteggiano un sinistro futuro stato etnico incline all’apartheid, in cui i catalani non doc sarebbero marginalizzati e che sullo scacchiere globale finirebbe per impiccarsi alla sua stessa irrilevanza economica.