Bocconi, Harvard e non solo
Quell'establishment che con Draghi fa le pulci all'agenda Monti
L’agenda Monti è un lascito imperituro, non verrà ribaltata dal nuovo governo. Lo auspica il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e lo sostengono in molti, a cominciare dai neocentristi di Luca Cordero di Montezemolo. Ribaltata forse no, ma riletta e corretta forse sì. Anzi, l’operazione è già in corso e non a opera delle opposizioni di destra e di sinistra, ma di un altro centro filogovernativo, che potremmo definire a orientamento americano.
Roma. L’agenda Monti è un lascito imperituro, non verrà ribaltata dal nuovo governo. Lo auspica il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e lo sostengono in molti, a cominciare dai neocentristi di Luca Cordero di Montezemolo. Ribaltata forse no, ma riletta e corretta forse sì. Anzi, l’operazione è già in corso e non a opera delle opposizioni di destra e di sinistra, ma di un altro centro filogovernativo, che potremmo definire a orientamento americano, senza il radicalismo di Paul Krugman per il quale deficit e debito pubblico non contano e senza (per carità) le illusioni neostataliste di Stefano Fassina, “l’americano” del Partito democratico. Ne fa parte Alberto Alesina, docente a Harvard, tra quei colleghi bocconiani ai quali Mario Monti ha tirato le orecchie sabato scorso proprio nella “sua” università, giudicandoli critici ingenerosi. Come già lo era stato Francesco Giavazzi, partner intellettuale di Alesina, bocconiano ed editorialista anche lui sul Corriere della Sera. Il punto di maggior dissenso riguarda non l’austerità, ma come realizzarla, da dove cominciare e quando fermarsi. Bisogna tagliare la spesa pubblica e allentare la pressione fiscale, secondo i due professori che punzecchiano il governo.
Alla fazione revisionista si iscrive anche un liberista che ha studiato a Chicago come Alessandro Penati. Sabato scorso su Repubblica è arrivato a sostenere che “una spinta al deficit può rilanciare il paese”. La sua ricetta è “una specie di Piano Marshall per la riconversione del sistema produttivo”, finanziato con un nuovo sistema di sicurezza sociale. In deficit, naturalmente. “Se io fossi Monti userei la mia credibilità per proporlo ai tedeschi”, dice Penati, concedendo loro il potere di verificare che il disavanzo venga usato davvero per questo obiettivo. Una proposta poco realistica, ma ha il merito di cogliere insieme le preoccupazioni dell’industria e quelle del rigore.
Ubbie di cattedratici? Non esattamente, perché il là è venuto niente meno che da Mario Draghi, presidente della Bce, all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi.
In Bocconi, palestra intellettuale del governo tecnico, il presidente della Banca centrale europea ha parlato di “consolidamento fiscale ideale”: è quello che “riduce il deficit e il debito con le minori conseguenze negative sul prodotto di un paese. L’evidenza prevalente indica che esso deve essere centrato su riduzioni di spesa corrente e non su aumenti di tasse”. Poi, fermandosi, ha aggiunto a braccio “come dimostra Alesina”. Insomma, Draghi benedice un cambio di marcia che sposti il peso dell’aggiustamento dalle maggiori entrate alle minori uscite. Una indicazione già arrivata dalla Banca d’Italia, negli interventi dei tre principali esponenti: il governatore Ignazio Visco, il direttore generale Fabrizio Saccomanni e il vice Salvatore Rossi.
Il ripensamento teorico è partito dal Fondo monetario internazionale. Il capo economista Olivier Blanchard (anche lui harvardiano benché francese) ha ammesso che il Fmi si è sbagliato: una stretta fiscale di un punto di pil non riduce la crescita di mezzo punto come si riteneva finora, ma di quasi un punto e mezzo. Ciò a causa dei cambiamenti introdotti dalla crisi. Monetaristi moderati come Monti, friedmaniani, hayekiani o postkeynesiani, tutti debbono fare i conti con i mutamenti strutturali introdotti dopo il 2008 e con le politiche monetarie interventiste, innovative, spericolate persino, adottate da Ben Bernanke e, a modo suo, da Mario Draghi, l’unico che sia riuscito a tradurre dall’inglese in tedesco la gestione della Banca centrale.
Nel presentare la settimana scorsa il suo rapporto sulla stabilità finanziaria, la Bundesbank (BuBa) ha riconosciuto che la febbre dei debiti sovrani non è affatto passata, al contrario; ha cambiato sintomi ed è diventata recessione, particolarmente grave in Spagna e in Italia. La BuBa ha ammesso che “gli effetti collaterali delle misure di stabilizzazione potrebbero lasciare una eredità pesante nel medio e lungo termine”. Ma la cura con politiche monetarie lassiste “non può eliminare le cause della crisi”. Insomma, il presidente della Bce è avvertito.
L’agenda Draghi, in realtà, non è diversa da quella Monti, ma indica la via di un riorientamento. Il presidente della Bce ritiene che agire sulla spesa abbia minore impatto produttivo e anche sociale, checché se ne dica. Soprattutto, è convinto che abbia anche un minor impatto negativo sul piano politico. E questo si deve allo studio comparato condotto da Alesina sulla sorte dei governi in carica in presenza di più tasse o meno spese. La conclusione (è andata meglio ai secondi che ai primi) è in linea con il buon senso, ma quando questo entra in contrasto con il senso comune, è sempre meglio verificare, affidandosi agli scienziati sociali.
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